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L’interVista a Gabriele Studer

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Gabriele Studer
Nato ad Alba nel 1982, ha studiato organo e improvvisazione a Parigi.
Svolge concerti in tutta Europa e ha pubblicato diverse trascrizioni di brani sinfonici

«La mia musica, tra concerti e messe»

Gabriele Studer è un giovane musicista di grande preparazione e rigore. Oltre ad essere un concertista, si è dedicato allo studio dell’improvvisazione e parallelamente, a quello della trascrizione per organo (e per altri strumenti) di lavori orchestrali e solistici: un’arte complessa che cercheremo di capire meglio. Lo incontriamo una domenica sera, mentre si prepara ad accompagnare la Messa vespertina.

Gabriele, tu vivi ad Alba, studi in Francia e hai radici svizzere: ma hai anche un legame con Alessandria.

«Frequento da tempo la vostra città: ho diversi amici e vi ho tenuto concerti. Le esperienze più significative sono forse state le masterclass di organo, dal 2009, con il compianto maestro Massimo Nosetti (grande concertista, compositore e docente, scomparso prematuramente nel 2013, ndr) organizzate dall’accademia diocesana di musica sacra».

Quali sono le tappe più importanti del tuo curriculum musicale?

«Ho cominciato i miei studi all’istituto musicale di Alba, per concludere, con il diploma, a Parigi. Studiare all’estero mi ha permesso di avere docenti di grande livello, ma non si finisce mai di studiare: dopo il diploma ho continuato a frequentare masterclass: oltre a quelle con il Maestro Nosetti ad Alessandria e a Messina, ho seguito Olivier Latry a Cuneo, David Briggs a Roma. Recentemente ho conseguito la laurea specialistica in organo a Cuneo con Bartolomeo Gallizio».

Cosa significa “improvvisare”?

«Significa creare opere musicali che “vivono” solo nel momento in cui vengono eseguite. La loro vita è effimera, ma le radici sono profondissime. C’è un’espressione che utilizzava spesso il mio maestro Pierre Pincemaille: “L’improvvisazione non si improvvisa”. Alle spalle dell’esecuzione deve esserci infatti uno studio profondo sull’arte della composizione in generale: corali, preludi, variazioni… Solo così si può introdurre un tema musicale in una forma prestabilita. La mia preferita è quella del “tema con variazioni”. Prevede un’overture, la presentazione del tema e poi, appunto, le “variazioni”: scherzo, fugato, toccata, adagio, fanfara… Il bello dell’improvvisazione è proprio quello di far “risuonare” qualsiasi motivo – anche quello di una canzoncina – rispettando le regole delle diverse forme musicali».

Come e dove si è sviluppata la cultura dell’improvvisazione?

«Possiamo parlare di diverse “scuole di pensiero”, come quelle italiana, tedesca o americana, anche se, per me, quella francese è la principale. Ha avuto grandi esponenti, come Vierne e Widor, agli inizi del ‘900, o, più tardi, Marcel Dupré, che ha portato l’arte ad un livello superiore. Era in grado di improvvisare una doppia fuga a sei voci, oppure un allegro sinfonico con una struttura perfetta. Un’improvvisazione fin troppo precisa. Nella seconda metà del ‘900, quella che secondo me è stata la pietra miliare è Pierre Cochereau».

L’improvvisazione non si improvvisa

Quanto contano i sentimenti? Qual è il tuo approccio emozionale all’improvvisazione?

«Occorre fare una distinzione tra l’improvvisazione concertistica e quella liturgica: quest’ultima, in particolare, deve essere adatta non tanto ad accompagnare la preghiera, quanto ad integrarsi con essa. Ad esempio, se accompagno una liturgia esequiale, non vuol dire che dovrà essere struggente o drammatica, ma deve ricalcare il momento. Una fanfara durante la comunione potrebbe non essere consona! E, in questo, comprendere e saper leggere musicalmente i sentimenti che si vivono sulla pelle, aiuta».

Quale sensibilità deve avere l’organista che improvvisa per la liturgia?

«Quello che a mio avviso è fondamentale è inserirsi in quei momenti che, a prima vista, possono sembrare vuoti o di attesa, e saperli valorizzare. Per esempio, tra il canto di comunione l’orazione finale della Messa, una buona improvvisazione può creare un momento un clima di preghiera e raccoglimento che consenta ai fedeli di meditare sull’Eucarestia ricevuta».

Hai conosciuto diverse esperienze di Chiesa e diverse confessioni, come la Chiesa anglicana: musicalmente parlando, quali differenze ti hanno colpito? Quale attenzione viene data in Italia alla formazione dei musicisti liturgici?

«Purtroppo in molte realtà del nostro Paese la formazione di musicisti per la chiesa è messa in un angolo. Spesso, poi, si dà spazio a strumenti che credo non siano così adatti ad essere all’interno della celebrazione. Questo non vuol dire che non debbano mai entrare in chiesa, ma forse solo in certi momenti. Non apprezzo molto le messe domenicali che sembrano quasi uno show, nonostante possa spesso esserci anche un genuino spirito liturgico.

Quanto alle altre confessioni, ho un ricordo in occasione di un concerto nella cattedrale di Canterbury. Prima dell’esibizione ho partecipato dalla tribuna dell’organo ad una funzione anglicana. Sono rimasto scioccato nell’ascoltare, in un qualsiasi venerdì sera, cantare Palestrina a cappella. Mi ha stupito in modo positivo il fatto che le musiche siano state scelte rispettando la loro destinazione liturgica: ad esempio, un offertorio scritto da Palestrina, ben contestualizzato, si accompagnava splendidamente con un ordinario della messa di Fauré cantato a quattro voci da un coro composto anche da bambini. Quello che manca, spesso, in Italia, è proprio la capacità di scegliere repertori che coniughino buon gusto e coerenza stilistica, tra antico e moderno».

Se un giovane ti domandasse cosa fare per diventare un bravo organista di chiesa, cosa gli consiglieresti?

«Bisogna essere, prima di tutto, un bravo organista in generale: non basta, quindi, studiare pianoforte un paio d’anni. Va però fatta una precisazione: le tante persone che hanno studiato, a diversi livelli, musica e che prestano la loro opera in chiesa fanno un’opera meritoria. Allo stesso tempo, secondo me, una preparazione specifica sullo strumento, fatta con insegnanti competenti, è importante, perché da quel che di “malizia” in più sull’improvvisazione, sull’accompagnamento, sull’armonizzazione del gregoriano».

Quali sono i tuoi prossimi progetti, sia come concertista, sia come trascrittore?

«Ho parecchi concerti in programma a partire da ottobre: suonerò in Liguria, e a Parigi, nella chiesa di San Nicola a Chardonnay, dove è conservato un bellissimo strumento a quattro tastiere recentemente restaurato. Poi, il prossimo anno, i concerti di inaugurazione nella chiesa di Cristo Re ad Alba, la mia parrocchia, dove l’organo stato restaurato e ampliato. Il concerto “apice” della stagione sarà nella chiesa della Madeleine a Parigi, dove, storicamente, si sono esibiti tanti grandi maestri.

Per quanto riguarda la trascrizione, sto perfezionando la mia versione de “Quadri di un’esposizione” di Mussorgsky: un lungo lavoro, che tiene conto delle mie impressioni come esecutore. Dopo la musica sinfonica, voglio poi avvicinarmi al barocco: Vivaldi è un compositore che mi piacerebbe aggiungere al mio repertorio di trascrittore».

A cura di
Eugenio Licata

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