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Vescovo Guido: «Per affrontare bene la morte c’è bisogno di una compagnia»

Eccellenza, che cosa pensa della legge sul biotestamento?

«Facendo un passo indietro e guardando le cose nel loro insieme, mi sembra che in questo periodo ci sia una grande attenzione a tutta una serie di tutele e aiuti per gli stati di vita sterili e negativi, che sono il segno di un’impronta decisamente nichilista della nostra società».

Ci potrebbe raccontare alcune sue esperienze al fianco di ammalati che sapevano di dover morire?

«Ho fatto molte esperienze di accompagnamento a persone al termine della vita. Quella della morte è un’esperienza umana fortissima che ha bisogno di accompagnamento, ma attraverso le leggi non riusciremo mai a offrire quel modo dignitoso, perché pieno di senso e di relazioni d’amicizia, di vivere la morte. Possiamo soltanto dare dei supporti tecnici, che in realtà non umanizzano la morte». Ci dica. «Le mie esperienze sono state diverse. Ricordo Marilva, la più cara amica di mia madre. Aveva un cancro che la stava divorando. Io a quel tempo ero vicerettore del seminario di Genova, e il martedì tornavo a pranzo a casa mia. Un giorno la trovo a tavola con noi. Magrissima, consumata, triste. Un confratello le aveva suggerito di non andare più a Messa: “Sei malata, il Signore vede la tua condizione, non c’è bisogno”. Io mi ero permesso di dirle l’opposto. “Se te la senti, vai a Messa, anche nei giorni feriali. Perché l’eucarestia è la tua forza, perché l’eucarestia è la via che ti consente di fare del tuo stato di malattia un qualcosa vissuto in modo profondo”. Lei comincia a tornare alla Messa, e ogni martedì la trovavo a casa mia. La confessavo, perché la confessione ha un valore di purificazione interiore e di adesione più forte a Cristo. Così è andata avanti fino a che si è sposata la figlia minore. Poi, accompagnata dalla figlia maggiore, una mattina va in ospedale, sulle sue gambe, e dopo poco peggiora. Mia madre mi telefona in seminario, dicendomi di andare a dare l’Unzione degli infermi all’amica. Parto di corsa e arrivo in ospedale. Lì la vedo con gli occhi sbarrati, come incosciente. Metto la cotta e la stola, le dico: “Marilva ti do l’Unzione”. La vedo rianimarsi. Poi, al termine dell’Unzione, muore. È stata una cosa impressionante per noi che eravamo lì. Ma vorrei raccontare un altro episodio…»

Prego.

«Una ragazza di 40 anni, capo scout. Facciamo una route su San Francesco e lei fa l’aiuto capo campo. Il giorno dopo, il 31 dicembre, va alla Messa del “Te Deum”, esce fuori dalla chiesa e saluta gli amici. Dopo poco va per terra e schiuma dalla bocca. In ospedale le dicono che ha un mese e mezzo di vita: tumore ai polmoni con metastasi al cervello. La curano, poi la dimettono. E il dicembre seguente viene di nuovo alla route. La route è su San Tommaso d’Aquino. Arriviamo a Fossanova, porto gli scout dentro la stanza dove è morto San Tommaso, raccontando la sua morte. A un certo punto, la ragazza prende la parola e dice: “Visto che si parla di morte dico la mia. Io la morte l’ho vista in faccia, la mia forza è stata l’eucarestia. I medici non riescono a spiegarsi il mio buono stato di salute e nemmeno io so il perché il Signore mi tiene in vita. Chiedo al Signore e alle vostre preghiere di morire un giorno come San Tommaso”. Da notare: non ci chiede di pregare per la sua guarigione, ma di pregare perché morisse bene. Dopo due anni e nove mesi muore. Il funerale, celebrato dal Vescovo, è stata una grande festa, non è stato possibile celebrare la funzione in parrocchia perché c’erano tantissime persone.».

E poi?

«Scilla è un’infermiera di 53 anni. Un giorno viene da me prima di una Messa dicendomi che ha un cancro e non è battezzata. Mi chiede di fare una preghiera in Chiesa per lei, perché ha moltissimi amici credenti. Io invece le propongo di battezzarsi… di solito non sono così arrembante, ma in quel caso lo Spirito Santo mi ha suggerito questo. Le dico: “Guardi, io credo che arrivare alla morte con le idee chiare su quello che succede aiuti molto. Le propongo un annuncio di fede, poi lei deciderà se credere o non credere”. Lei accetta, e iniziamo una catechesi dove io le parlo della Parola di Dio e lei mi parla della sua vita. Scilla ha tre figlie, non battezzate, e per questo si sente in colpa nel riceve-re il battesimo. Quando arriviamo alle condizioni mini-me, prima di Natale la battezzo: di nascosto, anche se d’accordo con il vescovo, alle 22.30 in ospedale, dove sta facendo delle cure particolari. E’ un’avventura bellissima. Dopo Capodanno incontro una sua amica che mi dice: “L’hai più vista Scilla? Devi andare a trovarla, ha qualcosa di speciale!”. Dentro di me so il perché… ha qualcosa di speciale, ha lo Spirito Santo! Anche una figlia di Scilla, una sera, guarda la madre e le dice: “Sei diversa… ma ti sei battezzata?”. Il funerale di Scilla è l’esperienza pastorale più forte di tutta la mia vita. Ci sono i suoi amici, atei e anticlericali, a cui “confesso” il percorso di fede di Scilla.».

Che cosa possiamo capire da queste storie?

«La vita e la morte, che per noi è un passaggio, sono un mistero nel quale la cosa più importante è la fraternità, è la compagnia di alcune persone con le quali camminare, prima ancora di ogni altro tecnicismo. Questa compagnia mette in fuga tante paure che noi pensiamo insormontabili».

Andrea Antonuccio 

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