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Tribunale ecclesiastico diocesano: una strada nella Chiesa

Monsignor Massimo Marasini è il Vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico diocesano, che ha competenza sulla dichiarazione di nullità dei matrimoni religiosi. Su questo tema le cose sono cambiate, ultimamente, a seguito della riforma del diritto canonico voluta da papa Francesco con il motu proprio Mitis Iudex Dominus Jesus del 15 agosto 2015. Una riforma voluta non a caso alla vigilia del Giubileo straordinario della Misericordia, indetto dal Santo Padre per l’8 dicembre 2015, e conclusosi il 20 novembre 2016.

Monsignor Marasini, ma non è che la Chiesa cattolica ha escogitato una scorciatoia per rendere più facile il «disimpegno» dal matrimonio?
«Più facile, no. Certamente più accessibile. E spiego».

Prego.
«Papa Francesco, nel dare piena realizzazione alla sua Chiesa «ospedale da campo», in questo frangente ha certamente pensato a tutte quelle persone che vivono l’esperienza di un matrimonio fallito. Il tema peraltro è da tempo oggetto della riflessione dei vescovi perché, nel caso di una convivenza o di un matrimonio dopo un divorzio, la disciplina attuale prevederebbe l’esclusione dall’eucaristia. La mia esperienza di giudice ecclesiastico piemontese mi fa pensare come spesso alla base di un divorzio ci sia un matrimonio vissuto senza comprenderne il senso cristiano e le sue conseguenze».

Un momento: ma chi è che ha davvero piena consapevolezza del senso cristiano del matrimonio, quando si sposa? Parliamo anche di persone che fanno un’esperienza di fede vissuta…
«Solo il Signore legge nel segreto dei cuori. La Chiesa si sente di chiedere per un matrimonio valido consapevolezza nelle affermazioni e nei gesti del sacramento matrimoniale. Più precisamente: la teoria classica del matrimonio canonico prevede che il consenso, se pieno e consapevole, generi la presunzione della validità matrimoniale. Naturalmente l’oggetto del consenso consiste nelle qualità specifiche della scelta cristiana: unità e indissolubilità del matrimonio, fedeltà coniugale e apertura al dono dei figli».

Non mi ha ancora risposto, però.
«Ci arrivo. Questo meccanismo giuridico ha funzionato senza problema fino a quando il contesto civile, sociale e morale sottendeva naturalmente i contenuti cristiani della scelta. Con l’ateismo e l’indifferentismo religioso che nella seconda metà del Novecento si sono diffusi largamente nel mondo occidentale, si è accentuato il rischio che il matrimonio «in chiesa» sia l’espressione di una tradizione svuotata dai contenuti, oppure di una moda seguita superficialmente».

E dunque?
«Bisogna riconoscere perciò che esiste il rischio che ancora oggi si scelga il matrimonio religioso senza aver ben presente di che cosa si tratta. Negli ultimi decenni le diocesi italiane hanno maggiormente curato gli incontri di preparazione al matrimonio, laddove questo percorso è stato proposto con forza e determinazione. Qualche scorciatoia involontaria, semmai, viene intrapresa quando l’aspetto burocratico si attua in maniera superficiale e sbrigativa. Perciò, nel tentare una risposta, il percorso ideale richiederebbe da una parte momenti di attenta e matura informazione sulla natura propria del matrimonio cristiano, e dall’altra percorsi di affiancamento o reinserimento della coppia nel cammino parrocchiale. In tal modo si creerebbero le condizioni per una scelta più matura e responsabile».

Ma in questo clima, perché una coppia dovrebbe cercare la nullità del matrimonio religioso? Non potrebbe accontentarsi del divorzio civile?
«Posso testimoniare, anche come parroco, che spesso persone che vivono l’esperienza delle «seconde nozze», ovviamente civili, riscoprono l’importanza della vita parrocchiale, magari perché accompagnano i figli al catechismo e si lasciano coinvolgere con sempre più grande desiderio ed energia. In quel contesto, allora, emerge spiritualmente l’esigenza di fare luce sulla prima scelta matrimoniale, e comprenderne la validità alla luce della legge di Dio».

Andrea Antonuccio

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