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Storia della Chiesa – Sacerdoti per chi?

“S’è fatto prete”. Questa espressione popolare è del tutto scorretta. Nessuno si “fa prete” da sé. Per essere presbiteri, pastori del popolo di Dio, non è sufficiente la scelta personale: “perché mi piace” (cosa?). Altri, incaricati dal Vescovo, devono garantire per l’ordinando la trasparenza delle intenzioni, la preparazione teologica e l’idoneità umana e pastorale. Ecco perché il rito dell’ordinazione inizia con la presentazione al Vescovo dei candidati, durante la quale si chiede anche l’assenso del popolo di Dio che dovrà accogliere il futuro pastore. Senza questo assenso, di cui si fa interprete il Vescovo, non è possibile proseguire il rito di ordinazione. Fin da questo primo momento il rito evidenzia il fondamentale rapporto del ministro ordinato con il popolo di Dio. Non si è ordinati per sé e per la propria gratificazione, ma per gli altri. Ogni battezzato è chiamato a vivere per gli altri. Ma con l’ordinazione si diventa in qualche modo “sacramento” vivente di una particolare scelta di vita, sigillata indelebilmente dallo Spirito Santo, a servizio del popolo di Dio. Tale servizio viene sinteticamente espresso dagli impegni elencati dal Vescovo dopo l’omelia e prima del canto delle litanie dei Santi e che l’ordinando accoglie ponendo le sue mani congiunte fra quelle del Vescovo. Con l’imposizione delle mani da parte del Vescovo e di tutti i presbiteri presenti, la preghiera di ordinazione e l’unzione delle mani si chiede fondamentalmente che, per l’azione dello Spirito Santo, il presbitero sia un alter Christus, cioè una persona che, ad immagine di Gesù Pastore, metta a disposizione la propria carne per dare, in modo del tutto speciale, un volto, un cuore e delle mani all’amore di Dio per gli uomini. Una missione che trova la sua espressione liturgica nella presidenza. Chi presiede, infatti, è chiamato ad esprimere chiaramente che egli non è all’altare per un suo colloquio privato con Dio, ma per “mediare” il dialogo fra Dio e il suo popolo. Con il linguaggio proprio della liturgia, certo, ma sempre con lo stile di Gesù, unico e vero Mediatore. Cioè con gesti veri, umili, semplici, nobili e autenticamente umani; senza teatralità, né affettazione. Gesù ha rivelato Dio attraverso la sua umanità. L’assemblea, pertanto, non è marginale, ma l’elemento qualificante di ogni celebrazione liturgica. Non è la semplice e materiale esecuzione di un rituale, ma è il servizio alle persone che dà senso e verità al rito e al sacerdozio cristiano. Anzi, l’assemblea è il soggetto celebrante in quanto sacramento dell’indivisibile corpo ecclesiale di Cristo, Capo e membra. I fedeli, pertanto, non devono essere considerati come “un pubblico” di muti spettatori che assistono allo “spettacolo” di uno solo o di pochi. Ogni assemblea liturgica è chiamata a manifestare l’identità della Chiesa, come comunione in quel sacerdozio comune che precede e dà senso a quello ministeriale. A maggior ragione una celebrazione di ordinazione è chiamata ad esprimere lo stretto rapporto del popolo di Dio con i suoi pastori attraverso una liturgia “seria, semplice e bella”, dove la vera solennità non sia identificata dallo sfarzo e la spettacolarità, ma da un’assemblea che, come un unico corpo, “tutta, esprime con il canto la sua pietà e la sua fede” (MS 16)… E, magari, anche con un eloquente gesto di carità perché sia una festa… “in uscita”.

Silvano Sirboni

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