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Festival della Parola – L’interVista a don Giuseppe Bodrati

 

Don Giuseppe Bodrati, guidato spiritualmente da don Ivo Piccinini, è stato ordinato diacono permanente da monsignor Charrier nel 1992. Ricopre questa carica sino al 2009, anno in cui è ordinato sacerdote dall’allora nuovo vescovo, Giuseppe Versaldi, il 6 giugno. Dopo l’ordinazione diventa collaboratore parrocchiale nella Chiesa di San Michele sino al 2013. Dal 2010 al 2017 ricopre l’incarico come cappellano della casa di reclusione di San Michele. Nel 2013, nominato da monsignor Guido Gallese, don Giuseppe diventa parroco di San Pio V. Parallelamente, nel 2015 riceve anche l’incarico come amministratore pastorale della parrocchia del Cuore Immacolato di Maria. Dal 1984 don Giuseppe è insegnante di religione: prima nelle scuole medie secondarie, poi al liceo classico “Plana”, al “Fermi”, e oggi all’Itis “Volta”. In ambito scolastico è anche stato segretario dell’Ufficio educazione, scuola e università della Diocesi dal 1992 sino al 1998, e responsabile dell’insegnamento di religione cattolica dal 1998 sino al 2015.

 

Perché la “missione” nelle vostre parrocchie oggi?
«Cominciamo con un breve accenno alla storia delle nostre tre Parrocchie dove complessivamente siamo all’incirca sui dodicimila residenti, ma molti meno praticanti. E questo per alcune ragioni: innanzitutto la demografia (diminuzione del numero dei nati e aumento del numero dei decessi). Altra ragione un innalzamento dell’età media dei residenti e uno scarso ricambio generazionale. Infine la continua perdita di prassi religiosa, cui hanno contribuito anche i gravi scandali che hanno ferito molti fedeli. Siamo diventati poveri, umiliati. Poveri non economicamente, ma umanamente. Ci sembra di essere una Chiesa scoraggiata. Come vivere, allora, questa situazione di Chiesa scoraggiata? Come uscirne? Pensiamo che il Signore ci abbia condotto su un cammino in cui chiede di non concentrarci sui problemi, ma di ricordarci ciò che Dio fa per noi. Ecco allora il titolo “ravviva il dono di Dio che è in te…”».

Secondo “Festival della Parola”. Si tratta della prosecuzione del primo?
«Sì, già due anni fa, nel primo Festival della Parola (che interessò le parrocchie di S. Pio V e del Cuore Immacolato di Maria, abbiamo iniziato a riflettere su come annunciare la Parola (Gesù) in un mondo che sembra stanco di parole. Ospitammo il fondatore del Sermig (servizio missionario giovani) di Torino, Ernesto Oliviero, il quale ci parlò della “Parola di Dio” come Parola Traboccante. Quest’anno vorremmo che quella Parola diventasse “Parola permanente”. Come? Intanto promuovendo la lettura della Bibbia nelle famiglie e proponendo alcune iniziative che troverete su questo foglio speciale di Voce».

Come siete arrivati a questa proposta di percorso?
«Girovagando o come si dice oggi navigando su Internet alla ricerca di qualche idea mi sono imbattuto in alcuni stili di missione che altre realtà ecclesiali hanno realizzato non solo in Italia e poiché non ci interessa essere originali, abbiamo “copiato” alcune idee e proposte che abbiamo fatto nostre. Le abbiamo proposte ai collaboratori, ne abbiamo discusso e ci siamo convinti che fossero un buon punto di partenza. Ho proposto a don Silvano e a Madre Odilla di condividere questo percorso ed eccoci qua».

Più precisamente di cosa si tratta?
«Una riflessione sul libro degli Atti degli Apostoli ci ha portato a pensare la Missione così: non usciamo per fare proselitismo (non cerchiamo clienti!) ma per testimoniare la nostra fede. Tre passi di questo libro ci fanno da guida e vorremmo che fossero condivisi da tutti i nostri parrocchiani – nel Consiglio Pastorale lo abbiamo fatto. Il primo testo è l’ultimo versetto del capitolo 28 degli Atti. Quando Paolo arrivò a Roma, trascorse due anni interi nella casa presa in affitto. Lì accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il Regno di Dio e insegnando le cose riguardanti Gesù Cristo. E le ultime due parole degli Atti degli Apostoli sono, “con tutta franchezza e senza impedimento”.
È un paradosso: Paolo prigioniero annuncia il Regno di Dio con franchezza e senza impedimento. Questo testo è per noi come un motto per il cammino che vogliamo intraprendere.
Il secondo testo è quello del capitolo 15. È interessante il processo del cosiddetto Concilio di Gerusalemme, un problema enorme di conflitto attorno all’obbligo della legge della circoncisione per i pagani battezzati. Ebbene, non discussero il problema, non si sono focalizzati sulle criticità (leggiamo con attenzione il testo e ci accorgiamo che i protagonisti raccontano le meraviglie che il Signore ha compiuto anche tra i pagani). Il nostro vescovo Guido, nella sua ultima lettera pastorale riprende un discorso di San Paolo in 1Cor 2, 4:“La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza” Come è possibile riprodurre oggi questa dinamica? Purtroppo non c’è una ricetta, non è una tecnica. È necessario tanto ascolto della Parola di Dio e un atteggiamento interiore che non “tolga la parola” al Signore: dobbiamo avere il coraggio di chiedere a Dio di parlarci negli eventi e attraverso di essi, e attendere che lo faccia, senza precipitarci sulle conclusioni e sulle cose da fare. (Lettera Pastorale “Un solo corpo” pag. 13) A Gerusalemme gli Apostoli hanno ascoltato l’esperienza dell’uno e dell’altro (dobbiamo reimparare a farlo). Il cristianesimo è una comunità di racconti, e pensiamo che si debba riscoprire il raccontarci a vicenda ciò che Dio ha fatto e fa nella nostra vita. E questo dà gioia. L’idea dell’accoglienza tradotta nelle nostre assemblee. Ascoltare le esperienze dell’altro.
Il terzo testo è il racconto del naufragio di Paolo a Malta (At 27). Alcuni potrebbero obiettare che l’immagine del naufragio non è una bella immagine della Chiesa. La Chiesa non fa naufragio, ma se è vero che, come insegna papa Benedetto, «il rinnovamento della missionarietà della Chiesa verrà dalla lectio divina», lasciamoci istruire. Il gruppo di Paolo ha perso tutto, la nave, il grano che era nelle stive. Tutto. Eppure, tutti sono sopravvissuti. Dobbiamo essere pronti a perdere tutto per essere arricchiti dagli altri. Questo cammino lo chiameremo “Mission first”, perché oggi tutto si deve dire in inglese. Prima la missione».

Mission first! In che senso?
«Prima la Missione significa che non possiamo portare gloriose esperienze di missione, perché la missione bisogna scoprirla. Certo, la preparazione al battesimo è missione, la preparazione del matrimonio pure. Tante cose oggi nella nostra vita parrocchiale sono missione. Ma non sono evangelizzazione».

Papa Francesco insiste molto sul “cambiare lo sguardo”, come pensate di realizzare questo cambiamento?
«È vero, il Papa invita a cambiare lo sguardo sul mondo di oggi. Un esempio? Parliamo della famiglia. Quante discussioni ha suscitato e suscita l’esortazione apostolica Amoris Laetitia. Prima di mettere nelle caselle “divorziato”, “risposato”, bisogna chiedere: “chi sei tu?”, “che persona sei?”. Noi non abbiamo una soluzione per questo. Come fare per stare sulla strada della verità? Pensiamo alle nostre famiglie. Che bella la gioia di una famiglia credente. Ma oggi la famiglia è patchwork (fatta di tante pezze), è una famiglia fatta di conviventi, separati, divorziati, risposati. È tutto complicato. Come siglare un’alleanza tra la verità che libera e salva e la misericordia? Questa è la grande sfida della nuova evangelizzazione».

Come vivono i laici delle vostre parrocchie questa situazione?
«La prospettiva di un cambiamento genera in alcuni un disorientamento, molti si chiedono dov’è il loro posto, cosa devono fare. C’è la tentazione di lasciar correre tutto e di chiudere. Come parroci dobbiamo affrontare casi particolari nelle nostre parrocchie. Ci sono situazioni dove dobbiamo guardare prima di tutto alla persona. Come vivere il Vangelo nella società secolare, dove siamo una minoranza. Anche qui ad Alessandria moltissimi matrimoni finiscono in divorzio, la famiglia cristiana non rappresenta oggi la normalità, bensì l’eccezionalità. Cosa vuol dire questa situazione per noi? Essere minoranza non vuol dire essere una setta. Occorre allora ritrovare lo slancio della proposta di vita cristiana».

Qual è allora la meta?
Sarebbe già un buon risultato se al termine di questo cammino potremo arricchire la nostra vita ecclesiale con qualche “sì”: Sì all’oggi, al nostro tempo. Lasciamo la nostalgia degli anni passati.
Un secondo sì è un sì consapevole e deciso a quella che è la nostra situazione. La diminuzione dei fedeli, il lasciare tante cose, il veder morire tante cose che amiamo. Molte cose moriranno, ma Dio ci ama nella nostra situazione. Un altro sì è il sì alla nostra vocazione comune di battezzati. Insistiamo molto sul sacerdozio comune di tutti i battezzati. L’evangelizzazione si fa da veri cristiani e la vita è la nostra testimonianza. San Francesco ha detto “annunciate a tutti il Vangelo, se necessario anche con parole”. Diceva questo perché è un vero cristiano. Questa è l’evangelizzazione. Sì per una Chiesa che impara passo a passo a vivere la nostra fede non solo per noi, ma anche per gli altri. Possiamo tanto imparare dagli ebrei. Loro hanno la convinzione che quando in una città ci sono dieci ebrei ciò sia una benedizione per quella città. Questo vale per tutti noi, rappresentanza come fuoco della nuova evangelizzazione. L’ultimo sì è al nostro ruolo per la società. E questo anche se siamo minoranza. Nonostante siamo pochi, abbiamo il ruolo del sale, che è sempre in minoranza. Non piacerebbe, infatti, una pasta dove il sale è in abbondanza. Le nostre parrocchie, le nostre comunità, i nostri movimenti, associazioni, sono una grande rete di carità, di misericordia, di coscienza sociale. E quanto più la rete sociale della società diventa debole, tanto più importante diventa l’impegno cristiano nella società».

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