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Don Luigi Ciotti: «Vivo sempre sotto scorta ma sono un privilegiato»

È arrivato martedì scorso ad Alessandria per incontrare la cittadinanza, su invito dei Lions della zona. Guardato a vista dalle forze dell’ordine e da una scorta poderosa, don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, non passa certamente inosservato. Il suo carisma (anche se lui continua a ripetere di essere «una piccola, piccola, piccola cosa») è molto forte: in tanti gli si avvicinano, gli stringono la mano per salutarlo o per ricordargli qualche battaglia fatta insieme. E quando don Luigi, come lo chiamano i suoi amici e collaboratori più stretti, incrocia nell’androne di Palazzo Monferrato il nostro vescovo, scatta l’abbraccio e un «Ti ricordi quando ci siamo visti l’ultima volta?». Siamo lì anche noi, e ne approfittiamo per fare a don Ciotti qualche domanda per Voce alessandrina.

Don Luigi, lei come ha capito che voleva diventare sacerdote? E un sacerdote di un certo tipo, tra l’altro…
«Guarda, io sono contrario alle etichette: quando sento parlare di preti antimafia, preti antidroga, preti di strada, mi rifiuto. Il prete è prete. Ognuno a modo suo, perché siamo tutti diversi, e la diversità è un dono e una ricchezza».

Come è nata la sua predilezione per gli ultimi?

«Io non mi stancherò mai di ringraziare Dio perché, arrivato a Torino come immigrato dalle Dolomiti, oggi terra molto ferita, ho avuto un privilegio: mio padre non aveva trovato casa, e allora l’impresa gli disse: “Signor Ciotti, lei può usare una baracca del cantiere”. Mia mamma andava a prendere gli abiti della San Vincenzo in parrocchia: li lavava e li stirava benissimo. Perché uno può essere povero e allo stesso tempo dignitoso. Io ho avuto questo privilegio, questa ricchezza, questo dono di aver toccato con mano che cos’è la fragilità, la sofferenza, i giudizi e le etichette degli altri. Ciò mi permette di tenere i piedi per terra, di scoprire che è necessario non dare mai nulla per scontato, e che bisogna avere più coraggio nel cammino della vita. Cercando di saldare un po’ la terra con il cielo».

Lei è una bandiera. Non si è mai sentito “usato” da qualcuno?
«No. Io sono una piccola cosa, cosciente dei miei limiti, felice di spendere la mia vita e di farmi un po’ “mangiare” dai poveri e dagli ultimi. Però ho condiviso con gli altri tutto questo. Ho cominciato che avevo 17 anni, a 20 nasce il “Gruppo Abele”. Diventerò sacerdote più avanti, grazie a un grande vescovo che già allora si faceva chiamare padre: padre Michele Pellegrino. Il giorno in cui mi ordinò sacerdote, al termine della celebrazione, in una Chiesa che si era riempita del popolo della strada, lui si rivolse ai ragazzi e disse: “Io so cosa pensate, che adesso prendo don Luigi e ve lo porto via. No. Lui è nato e cresciuto con voi e ve lo lascio, affido a lui una parrocchia. E la sua parrocchia sarà la strada”. Mi ha mandato così a riconoscere i volti di Dio in chi fa più fatica. E io ho cercato di fare questo, condividendolo con gli altri».

Lei va in giro scortato. Non le manca una dimensione un po’ più “tranquilla” della vita?
«Mi sono posto delle domande quando mi hanno avvertito delle intercettazioni con la mia condanna a morte. Fra loro (indica i ragazzi della scorta, ndr) ci sono alcuni che sono riusciti in una sala pubblica a buttarsi addosso a un uomo armato. Certo, non è facile, ma penso sempre a chi rischia ancora di più, o a quanti hanno perso la vita. Io sono ancora un privilegiato perché, pur costretto a una situazione così, posso continuare a spendere le mie energie per moltiplicare la coscienza delle persone che si mettono in gioco. Perché si allarghi il “noi”, che è vitale e fondamentale per la società».

Andrea Antonuccio

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