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Occupandoci di loro, ci occupiamo anche di noi

Intervista a don Valerio Bersano 

«La tiepidezza di molti cristiani fa sì che la proposta della Chiesa sembri una tra le tante opzioni»

“Non si tratta solo di migranti”: è questo il titolo che papa Francesco ha scelto per il suo messaggio in occasione della 105a Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, che verrà celebrata domenica 29 settembre. Abbiamo chiesto a don Valerio Bersano, parroco di S. Maria di Castello e responsabile servizio “Migrantes”, di aiutarci a entrare nello spirito di questa giornata. Partendo proprio dal messaggio del Santo Padre.

Don Valerio, perché “non si tratta solo di migranti”?
«Questo è un tema che ci provoca alla riflessione su un aspetto importante della vita, anche ecclesiale: le nostre comunità, rispetto ai richiedenti asilo e agli immigrati, cosa vedono, cosa pensano, in che modo si pongono? Abbiamo respirato tante volte un giudizio durissimo di fronte a loro, quasi fossero la causa di tutti i mali della società».

Perché un clima così ostile, anche tra i cattolici e nella Chiesa?
«È venuto meno un sentire etico, morale, e anche una sensibilità umana. È come se l’attenzione agli altri si fosse contratta. Perché sono diffidente verso gli altri, in modo particolare verso gli immigrati? Perché ragiono con la convinzione, mai documentata, che si debba avere paura per lo straniero? Come posso pensare che l’arrivo di alcuni ragazzi da Paesi così lontani e impoveriti possano minacciare l’occupazione nel mondo del lavoro? È vero però che non conosciamo nulla del loro mondo, delle loro tradizioni, cultura e “ricchezze”. E allora cresce in tutti una forma di difesa: ho paura, e la paura mi fa fare cose che razionalmente non sono corrette».

Non sembra che il Papa sul tema dei migranti sia molto seguito…
«Se il Vangelo mi dice di non avere un altro Dio al di fuori di quello che Gesù mi propone, posso accettarlo e dire che ci credo. Se Gesù nel Vangelo mi presenta Dio come padre, e a me va bene, perché poi nelle conseguenze mi fa così tanto problema accogliere tutti come fratelli?».

Però è anche vero che nelle famiglie, pure tra fratelli, non è facile “accogliersi”. Dov’è la radice del problema?
«In una riduzione di umanità. Se c’è questa riduzione, il Vangelo è recepito solo in parte. E il Vangelo, da solo, non può darmi l’umanità che non ho».

E chi mi può dare questa umanità? Come faccio a essere “umano” veramente?
«L’umanità non comincia con me. La nostra vita inizia con un dono dopo l’altro, doni su doni. La maturazione di una persona inizia quando smette di vivere per se stessa ed esce verso gli altri. Gli altri, essendo diversi da me, sono una ricchezza. La diversità è una ricchezza: altrimenti vivo nel mio pregiudizio, e per questo creo delle barriere».

“Non si tratta solo di migranti”, ha scritto il Papa. Di che si tratta, allora?
«Si tratta della nostra umanità, appunto. Occupandoci dei migranti, ci occupiamo anche di noi. Dobbiamo affrontare la domanda: “Perché ho paura di chi non conosco?”».

C’è un punto di questo messaggio che ti ha colpito particolarmente?
«È un punto un po’ “trasversale”, ed è l’invito ad aprirmi e ad accogliere le persone, riconoscendole non per quello che mi danno, ma per quello che sono. Per la loro dignità. Qualcuno ha sostenuto che accogliere gli immigrati è conveniente per il nostro Paese, perché con i loro contributi previdenziali ci pagano le pensioni. Questo non basta: non è un pensiero inclusivo ma egoistico, di strategia economica. Non è un pensiero umano, ma da manager che è solo interessato a far quadrare il bilancio della sua azienda».

In questo crollo di umanità, quali sono le colpe della Chiesa?
«Io direi che, più che colpa, esiste un rallentamento sui temi che il magistero del Papa e dei vescovi ha lasciato fra parentesi. Mi spiego: sta nel non aver lavorato sufficientemente sugli aspetti o sulle ricadute sociali del Vangelo. Ci sono stati, e ci sono, più cristiani che seguono la religione che cristiani che seguono il Vangelo».

Spiegati meglio.
«C’è una discrepanza evidente tra Vangelo e vita. Un esempio: noi iniziamo la Messa con l’atto penitenziale, confessando di essere peccatori, e finiamo riprendendo a parlare dei peccati degli altri. Non vediamo i nostri… la tiepidezza di molti cristiani fa sì che la proposta della Chiesa sembri una tra le tante possibili opzioni, e nemmeno la più interessante. Il Vangelo non va conservato come un libro, ma deve diventare la vita. Altrimenti la vita non ha più nulla di evangelico: giudichiamo, parliamo e ci muoviamo come tutti gli altri. Perdiamo lo “specifico” del cristiano! La Chiesa siamo noi, sono i battezzati: da qui bisognerà ripartire, cioè ri-convertirsi».

Andrea Antonuccio

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