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L’intervista a Daniela Frizzele

Parlare con i nostri bambini dei “discorsi grandi” della fede è una grande occasione di conversione

Il personaggio

Daniela Frizzele (nella foto di copertina) è nata nel 1973 a Milano, dove si è laureata in Scienze dell’Educazione alla Cattolica per poi conseguire un master in Pedagogia Clinica all’Isfar di Firenze. Prosegue la sua formazione come conduttore di gruppi di parola per figli di genitori separati e tutor del progetto “Teen Star”. Attualmente è pedagogista ed educatrice professionale, oltre che coordinatrice pedagogica del progetto Intrecci materni a favore della maternità presso l’istituto “don Gnocchi di Milano”. è uno dei genitori dell’associazione “La quercia millenaria” a sostegno della maternità e paternità quando si riscontrano gravi patologie del bambino e conduttrice del gruppo “La Speranza oltre il Dolore” rivolto a genitori che hanno perso il figlio in fase pre e peri neonatale.

Chi è Daniela Frezzele, vista da Daniela e dalla sua famiglia?
«Una mamma di cinque ragazzi e bimbi, e sposa di Paolo. Il 1 gennaio 2020 arriviamo a 20 anni di matrimonio e cinque di fidanzamento. Il primo figlio, Matteo è nato e morto il 1 dicembre 2001 perché affetto da una grave malformazione. Lo abbiamo battezzato e coccolato per 3 ore e poi è tornato dal Padre. Per rispondere alla tua domanda ho chiesto ai miei figli, e dicono di me cose diverse. Francesco di 11 anni dice che la mamma ci ha dato la vita e ci aiuta, Sara che ha 13 anni dice che la mamma ha delle risposte alle nostre domande, Samuele di 15 anni invece mi vede come un generale, mentre per la più piccola, Elena Maria, sono coccole e abbracci. Cerco di essere presenza in base all’età e al bisogno del momento. Mi sento un po’ una regista, un lavoro nascosto dietro le quinte per lasciare loro la scena. Sono anche una pedagogista».

Quando si può iniziare a parlare di Gesù ai bambini?
«Se Gesù è per te una persona importante ne parli da subito, se è una persona che centra con la tua vita ne parli come parleresti degli amici, se Gesù è un estraneo non ne parli. Se dovessi decidere “quando”, ne parlerei da subito perché i bambini sono molto sensibili al Sacro, proprio perché la relazione con Gesù si passa nella relazione con loro. La relazione genitore-figlio è la rappresentazione del rapporto uomo-Dio, vedono nel tuo volto il volto del Padre».

Da dove si comincia?
«Da come ciascuno è abituato. è importante stabilire dei riti, il segno della croce al mattino e alla sera, pregare per qualcuno che ha bisogno, il ringraziamento a pranzo… l’uomo ha bisogno di riti per rendere sacra la quotidianità. Se la fede è parte della tua vita ne parli da subito, perché tradurre la fede ai bambini ti rende consapevole della tua fede e ti permette di coglierne il significato. Un’occasione per riscoprire la nostra fede».

Tu come hai raccontato ai tuoi davanti al presepio?
«Preparare il presepio, diventa un rito, così come l’Avvento è attesa e preparazione del Natale. Per questo motivo è importantissimo avere molta cura quando si prepara il presepe. Noi lo personalizziamo e lo decoriamo insieme, cerco di coinvolgerli in questa attesa facendo delle cose per Gesù che sta arrivando. Il bambino all’inizio ti aiuta a mettere le statuine e nel frattempo racconti la particolarità di un Dio che si fa carne, che si fa bambino e che diventa accessibile a tutti. Capiscono che Gesù è un bambino come loro, che nasce in una famiglia e che ha vissuto la sua vita esattamente come loro, facendosi vicino a tutti a cominciare dai pastori. Non c’è nessuno che non possa avvicinarsi».

Cosa hai raccontato di “Giuseppe”?
«Per poter capire il concepimento virginale di Gesù, il bambino deve avere capito i meccanismi della nascita, per cui dipende dall’età. Per i bambini piccoli si passa l’idea che il vero Padre di Gesù è Dio e che Giuseppe è stato chiamato a essere suo padre sulla terra. Poi più avanti quando capisce il significato del concepimento può capire il resto, non bisogna avere fretta. Bisogna lasciarsi guidare dalle domande dei bambini».

Come si parla della “morte e risurrezione” ai bambini?
«Quando capita l’argomento per via di un lutto, non bisogna nasconderlo, ma bisogna parlarne. Si va con loro alla funzione, al cimitero per un ricordo. Sulla morte di Gesù direi che in quella morte c’è sofferenza, c’è dolore. Se Dio è morto per noi è perché ciascuno di noi possa essere con Cristo nella morte, per poi attraverso lui sentire la forza della resurrezione. Non c’è male che attraverso la risurrezione non possa diventare bene. Gesù Cristo in Croce va guardato senza paura insieme ai nostri figli perché è la nostra speranza. Più vedi le sue piaghe più vedi che le piaghe umane, in Gesù, trovano il suo senso. Non dobbiamo aver paura di affrontare i discorsi grandi della fede, parlarne con loro è anche una grande occasione di conversione per noi adulti che spesso preferiamo “evitare”».

Come sono i bambini (dai 6 ai 12 anni) di oggi?
«Secondo me i bambini oggi hanno una gran fame di rapporti reali e buoni. Ho scoperto che questa generazione è molto in contatto con le tecnologie e mi ha sorpreso. Alcuni di loro hanno il cellulare. E hanno bisogno di qualcuno che stia accanto a loro. Hanno un bisogno affettivo grande. Sono iper stimolati da molte immagini, per questo bisogna accompagnarli a fermarsi, a rallentare. Se non lo fanno con un adulto fanno fatica. Sono poco abituati a pensare e a stare “un po’ da soli”, ad annoiarsi per potersi inventare qualcosa e scoprire il mondo e loro stessi».

Come vedi la catechesi con questi bambini?
«Posso portare l’esperienza dei miei figli, ho capito che conta molto la relazione tra catechisti, famiglie e sacerdoti. Ciò che si fa a catechismo attecchisce se ne parliamo anche in famiglia. C’è bisogno di un vero e proprio supporto alla famiglia, ci vuole un lavoro di squadra. Forse non importa tanto la tecnica, la fede passa soprattutto attraverso la testimonianza e quindi le relazioni. Ci vanno catechisti convinti più che preparati. Ma se è una lezione non è certo l’incontro con Gesù Cristo. Il percorso di catechesi passa attraverso le relazioni e le amicizie. È l’esperienza che trasmette la fede, altrimenti sono solo concetti».

Cosa consigli a un genitore che vuole accompagnare i propri figli ad una vita di fede?
«Camminare insieme alla comunità, appartenere ad una comunità. La mia fede cresce dentro ad una comunità perché c’è bisogno di aiuto, i genitori non posso farcela da soli. Una volta la fede apparteneva al senso comune, oggi invece è una “lingua nuova”, quindi un percorso di comunità ti accompagna e ti sostiene. Da soli i genitori non ce la fanno, soprattutto quando i figli sono grandi, se non hanno amicizie che come loro scelgono di impegnare il loro tempo per gli altri, non lo faranno perché lo dice un genitore. Le testimonianze di vita accompagnano a una vita di fede e questo lo si trova in una comunità. Dobbiamo fare come dice Gesù: “Amatevi come io ho amato voi”, la gratuità conquista».

a cura di Enzo Governale

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