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Il coronavirus ferma i Lunedì di Quaresima

Intervista al professor Renato Balduzzi

Professor Balduzzi, i Lunedì di Quaresima saltano… 
«Li abbiamo spostati orientativamente a dicembre. Sarà interessante vedere come le tre prospettive che avevamo individuato, quelle di uno studioso dei giovani come Alessandro Rosina, di un osservatore partecipante come Gioele Anni e di un sociologo attento ai nessi con la politica come Giancarlo Rovati, ci racconteranno il comportamento giovanile di fronte all’emergenza coronavirus. Un’emergenza, per come è e per come è percepita, che rischia di produrre un distacco generazionale e può diventare uno spartiacque nella vita collettiva e individuale. Come hai vissuto, se sei giovane, queste settimane, sarà determinante per la tua vita».

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Dov’è lo spartiacque?
«Nel comportamento giovanile in queste settimane vedo un’alternativa profonda tra due posizioni: da una parte (e mi auguro che questa sia una posizione largamente minoritaria) il disinteresse, la tentazione di vivere il virus come un problema che tocca solo gli anziani; dall’altra, la solidarietà verso chi è più fragile e più solo, insomma la fraternità, per dirlo con una parola che andrebbe riscoperta e che è stata la grande dimenticata dopo il 1789. C’è bisogno di riflettere su questo perché, anche al netto del coronavirus, noi viviamo una situazione nella quale l’aggettivo “buono” è da molte persone convertito, persino in un’area culturale di tradizione cristiana come la nostra, in una derisione, e addirittura “buonismo” è per molti diventato una parolaccia. Allora questa emergenza può essere occasione per recuperare, giovani e meno giovani, il senso di uno stare insieme, di una fraternità appunto, proprio ora che dobbiamo stare fisicamente distanti. Una nozione di fraternità così esigente è una sfida: in quali termini, e come tutto questo avrà riflessi sulla nostra percezione della democrazia, ce lo potrà dire il professor Rovati».

Il tema della democrazia come è legato ai giovani e al coronavirus?
«Sembra quasi che le “non democrazie” riescano a contrastare meglio le emergenze, e a qualcuno potrebbe venire l’idea che questa sia la soluzione: l’uomo forte, un regime autoritario. Ma la realtà è un’altra: è più facile individuare un rischio in una società aperta e democratica, ed è discutibile che un regime autoritario possa risolvere meglio questi problemi, se non apparentemente. Certo, in uno Stato poliziesco prima di infrangere le leggi e i decreti ci pensi cento volte: ma le regole funzionano davvero quando sono interiorizzate, ed è più facile che lo siano in un contesto democratico, purché sia percepito come autorevole da noi cittadini».

«Questa emergenza può essere occasione per recuperare il senso di uno stare insieme, di una fraternità»

Come possiamo interiorizzare le regole che gli ultimi due decreti governativi ci impongono di rispettare?
«Bisogna capire che le cautele nascono dalla riflessione dei competenti, anche a livello internazionale. Abbiamo in queste settimane “scoperto”, per esempio, che esiste l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Per esperienza, quando ero ministro nel governo Monti (dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013, ndr) facevo fatica a comunicare l’importanza dell’Oms. Anche molti operatori sanitari ne avevano un’idea lontana… Ora invece abbiamo capito che si gioca tutto lì, nella capacità di gestire in modi globalizzati problemi che sono planetari. E in queste settimane stiamo anche comprendendo l’importanza del coordinamento statale, e che il coordinamento non è nemico dell’autonomia regionale, ma è ciò che consente all’autonomia di essere tale, e non pericolosa autarchia. D’altra parte questo lo aveva già capito Vittorio Bachelet, che proprio sulla nozione di coordinamento scrisse pagine determinanti per comprendere i sistemi organizzativi complessi».

Dopo aver tanto parlato di “malasanità”, in questo periodo stiamo scoprendo una “buona sanità”.
«Ecco, questo è un aspetto da sottolineare. Ieri, per esempio, è divenuta pubblica la notizia che la dottoressa Paola Varese, noto primario di Medicina dell’ospedale di Ovada, è risultata positiva al coronavirus. Sappiamo che si è spesa sin dall’inizio senza badare alla propria incolumità, e le auguriamo di potere presto ritornare al suo importante lavoro. Questo è uno dei molti esempi dell’intelligente abnegazione di medici, infermieri e personale sanitario. Quando poco tempo fa il Presidente della Repubblica ha dichiarato che la nostra sanità è un fiore all’occhiello del nostro Paese, ha detto una cosa profondamente vera. Certo, i problemi ci sono, e ce ne accorgiamo soprattutto in queste ore per i reparti di terapia intensiva, che devono fare fronte a necessità eccezionali: risorse umane, strumentali, di organizzazione… però tutto questo sta dentro a un sistema di cui dobbiamo ringraziare i nostri predecessori e che abbiamo saputo conservare, anche in anni difficili, non cedendo alla logica dei “tagli”, ma puntando sugli standard, sulle riqualificazioni, sull’appropriatezza».

La sanità del Sud non sembra però pronta ad affrontare l’emergenza coronavirus.
«Conosco la geografia della sanità italiana, e so che esistono forti diseguaglianze territoriali. Ma, in primo luogo, le diverse “velocità” sono connesse a caratteristiche economiche, sociali, culturali e storiche di territori nei quali comunque è dimostrabile che la sanità funziona comparativamente meglio di altri settori pubblici, come scuola, giustizia e trasporti. In secondo luogo, anche nei territori “eccellenti” vi sono zone meno virtuose in cui possiamo trovare dei problemi. La risposta è: riduciamo le differenze, sapendo che esistono situazioni diverse all’interno delle stesse regioni… addirittura all’interno della stessa Asl ci sono realtà in cui le cose vanno bene, e altre in cui vanno meno bene o non vanno affatto. Dipende molto dalla storia del territorio: là dove esiste un volontariato forte, una fraternità vissuta nei fatti, una maggiore coesione sociale, è più facile che i servizi funzionino meglio».

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Una domanda personale: lei come vive questa Quaresima così particolare?
«Cerco di avvicinarmi a quei percorsi che meno facilmente sarebbe possibile seguire in una condizione di normalità, o che si pongono in forme prima sconosciute. Ciò vuol dire non soltanto trovare nella giornata qualche spazio in più per la riflessione e la preghiera, ma anche potere accedere, per esempio, in streaming alla Messa del Papa a Santa Marta, che è un’opportunità straordinaria. Francesco ha questo grande dono del realismo cristiano, che mostra come la fede ha a che fare con la quotidianità e con la vita di tutti i giorni, senza diventare bagaglio ideologico o mera dottrina. E poi c’è la Messa domenicale su Internet: noi potremo domenica prossima partecipare alla Messa del nostro vescovo, la domenica successiva, che so, a quella celebrata dal vescovo di Rimini o di Teramo (cito questi perché sono cari amici) e così vivere un’esperienza di Chiesa più allargata. Senza “mitizzare” il virtuale, sia chiaro, perché per noi i simboli, penso in primo luogo all’Eucaristia, non sono solo cose formali. Ma in una situazione di limite come questa, è utile approfittare di tutte le occasioni».

Andrea Antonuccio

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