“Fede e medicina” di Franco Rotundi
L’emergenza non è certo finita, dunque è difficile staccarsi completamente da quella che, comunque vada, è certamente una vicenda epocale non solo dal punto di vista sanitario, sicuramente anche dal punto di vista economico e sociale: da cento e più anni, mai vista una epidemia simile.
Quali riflessioni può fare ancora il medico, forse cominciando a “imparare una lezione”, sperando non sia troppo tardi? Tutto questo poi, in relazione soprattutto alla nostra fede e alla nostra professione-missione.
Intanto, questa epidemia-pandemia ha nuovamente portato alla attualità un rapporto non più medico-paziente, ma medico- comunità/nazione, medico-istituzioni, politiche e sanitarie.
Dicevamo della necessità di grande umiltà da parte del medico e dello scienziato nell’affrontare questa e ogni situazione che riguardino la malattia e soprattutto le persone malate: l’errore che si compie in questi momenti è spesso di una sotto o sopravvalutazione dell’evento patologico, dando per scontato che le conoscenze acquisite siano sempre sufficienti a “prevedere” e a contenere un fenomeno, se non addirittura a curarlo, riconducendo ogni sintomo alla propria “specialità”.
Invece, il compito del medico deve essere quello di studiare, di approfondire sempre, cercando poi di “calare” le proprie acquisizioni sulla persona malata, non certo solo sulla malattia. L’esempio della malattia virale è proprio “calzante”, soprattutto per chi ha fede: se i virus sono frammenti di genoma, e il genoma è, per chi crede, null’altro che “l’impronta” della Creazione, ancora di più lo scienziato deve inchinarsi ed ammettere la sua sempre incompleta preparazione.
Anche nella malattia neoplastica la evoluzione, a causa od indipendentemente dalla terapia, può sfuggire allo studio statistico, in relazione all’organismo umano in cui si sviluppa, e ad un insieme di fattori insiti nella natura umana in questione.
Abbiamo detto: umiltà, dovremmo aggiungere rispetto: della persona malata, che in quanto Creatura di Dio, non è certamente oggetto soltanto di studio o di “terapia”. La parola terapia, dal greco, significa “cura”: la cura non è soltanto somministrazione di farmaci, o applicazione seppure efficace di “bei gesti” chirurgici.
La cura è prima di tutto rapporto umano con la persona malata, comprensione e condivisione del problema, per le più appropriate, mi piace dire le più “belle” attenzioni terapeutiche, siano esse mediche, chirurgiche, o palliative. Di fronte una persona malata, non una semplice malattia.