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«Nonostante le difficoltà il sistema ospedaliero ha retto, adattandosi»

Intervista a Silvio Testa, presidente della Società piemontese di chirurgia

«Il mio pensiero e la mia particolare preghiera sono rivolte a coloro tra noi, medici, infermieri, operatori socio-sanitari che stanno combattendo questa battaglia, non come clinici ma come pazienti». Si chiude così la lettera inviata a tutti i chirurghi del Piemonte di Silvio Testa, chirurgo 67enne, direttore del Dipartimento d’emergenza e del reparto di Chirurgia generale del “Sant’Andrea” di Vercelli e presidente della Società piemontese di Chirurgia. Una lettera toccante che ripercorre queste settimane così difficili, e quasi surreali, vissute tra disperazione e speranza all’interno degli ospedali.

Dottor Testa, com’è stato il primo impatto con il Covid-19?
«Questa emergenza ha travolto il sistema sanitario. Pensavamo inizialmente di poterla gestire, invece il numero degli accessi è stato esplosivo. Vedete, una cosa è leggere i giornali e sentire che a Whuan c’era quel tipo di situazione, un’altra cosa è viverla in prima persona. All’inizio nessuno sapeva molto di questa malattia, quindi all’interno degli ospedali non si prendevano misure di prevenzione come adesso, gli errori sono nati spontaneamente. Su tutte le grandi pestilenze dal 500 a oggi c’è letteratura, sul Covid-19 no… sapevamo solo che si trattasse un’infezione virale».

A Vercelli come si è evoluta l’emergenza?
«All’inizio si pensava di isolare una zona dell’ospedale e curare i contagiati, in realtà la cosa è stata travolgente, i malati sono arrivati a tamburo battente. Ed è quello che è successo in Piemonte, in Lombardia e in altre Regioni. Per fortuna non al Sud, anche se adesso si teme una possibile ondata. Quindi tutti gli ospedali si sono inquinati e loro stessi sono diventati sede di contagio. Così le attività chirurgiche sono state ridotte ai minimi termini».

Ecco, come è cambiato il vostro lavoro?
«Abbiamo dovuto impiegarci tutti in questa emergenza, per cui non ci sono più distinzioni specifiche di ruolo. Nei due ospedali dell’Asl di Vercelli su 450 posti letto circa 120 sono dedicati ai malati Covid. Ai chirurghi è stato chiesto di limitare le attività all’emergenza, agli interventi salvavita e agli interventi oncologici. In buona parte del territorio nazionale l’assistenza sanitaria è stata “sospesa” orientando tutte le energie e le risorse a un unico scopo. Ci dedichiamo alle cure dei malati di Covid, e tutti gli altri? Chi ha la sfortuna di avere un cancro si è visto rinviare gli interventi chirurgici. Ma a queste persone non possiamo dire “vi opereremo l’anno prossimo”, perché non c’è tempo, rischiano di morire. Quindi bisogna trovare una soluzione: o creare degli ospedali solo per i casi Covid, oppure dividere gli ospedali rigorosamente in due parti, una dove vanno i malati “sani” e dall’altra i malati che hanno anche il virus».

Nella lettera dice che il sistema sanitario ha retto. In che senso?
«Sì, ha retto perché, pur impreparato numericamente e tecnologicamente, è riuscito a fare di necessità virtù, sfruttando risorse che adesso stanno riducendosi al lumicino. Noi italiani siamo abituati ad arrangiarci, abbiamo una mentalità molto più elastica e meno rigida rispetto ad altri Paesi. Il sistema ha retto adattandosi, nonostante tutti i difetti. Nella lettera ai miei colleghi ho scritto di non ascoltare le polemiche perché sono di “parrocchia”: se a Roma comanda il bianco, a Torino il verde dice che il bianco sta facendo male, e viceversa. La Sanità ha retto autogestendosi, alzando la voce per richiedere mascherine e ventilatori. Ma di questo la responsabilità non è dei medici, è di chi ha gestito la Sanità negli ultimi anni…».

A riguardo scrive: “Nel 1981 gli Ospedali pubblici italiani offrivano 530.000 posti-letto scesi a 230.000 nel 2017”. Chi ha sbagliato quindi?
«Chiariamo una cosa: per la Regione Piemonte il bilancio della Sanità è l’80% del bilancio Regionale, capite bene che se di questa fetta ne tagliassimo il 4%, stiamo parlando di grosse cifre. Le responsabilità di tutto ciò vanno equamente distribuite tra tutti coloro che hanno governato in passato o governano oggi, nessuno escluso. Ma nonostante tutti i difetti, abbiamo il miglior sistema sanitario garantista del mondo, noi non neghiamo la cura a nessuno… Stiamo vedendo la situazione negli Stati Uniti, dove riceve le cure solo chi è assicurato».

Poi parla della mancanza dei medici…
«Prima di dicembre 2020 avrei dovuto andare in pensione, la legge concede di rimanere in attività fino ai 67 anni o al compimento dei 40 anni di servizio. Mi spetta di diritto la pensione, avendo iniziato a 27 anni, ma non posso andarci perché essendoci pochi medici e chirurghi, come ho scritto nella lettera, posso prolungare il mio lavoro fino ai 70 anni. Questo perché hanno tagliato il più possibile la Sanità: formare un medico, un chirurgo o un infettivologo costa molto alla comunità perché servono scuole e professori. Inizialmente hanno messo a numero chiuso la Facoltà di Medicina, dicendo che c’erano troppi iscritti. Forse era così negli anni in cui mi sono laureato, ma i ricambi generazionali hanno abbassato di molto il numero di medici. E adesso ci accorgiamo che siamo pochi. Per le istituzioni è stato più comodo tagliare e questo è il risultato: in una situazione di emergenza abbiamo dovuto chiamare medici russi, cinesi, cubani o chiedere un aiuto ai colleghi del Sud».

Però adesso siete visti come eroi.
«Dovrebbero vergognarsi i politici che adesso battono le mani a medici e infermieri, che sono anche i meno pagati e numerosi d’Europa. Ma non è il momento di parlare di soldi, ma di salute. Come ho scritto nella parte finale della lettera: salute cioè “salus” che è salvezza del servizio sanitario nazionale che uscirà a pezzi da questa situazione. Se non investiranno altri soldi sarà un problema».

Come sarà il futuro?
«In questo momento il futuro è indecifrabile. La politica sarà in grado di sistemare questa situazione? Non so… Ho l’impressione che chi adesso ha le responsabilità maggiori non sa come venirne fuori, chi invece è all’opposizione, non dovendo decidere, attacca il governo. Il vero problema è che stiamo vivendo un periodo di crisi non legata all’economia, ma alla salute. Ed è molto più grave. Adesso che l’emergenza ci sta dando dei tempi di ragionamento, bisognerà capire come non ricadere in una situazione di questo genere. Perché è possibile che la natura si stia un po’ ribellando all’uomo. Ogni tanto ho il dubbio che tutto questo possa essere un monito: “Attenti a non trascurare le foreste, a non riempire il mare di plastica, a non pensare al proprio edonismo personale e non al benessere di tutti”. Non è che sparito questo virus, che è molto intelligente, ne verrà fuori un altro?».

Una curiosità: non crede sia stato rischioso richiamare i medici in pensione?
«Sono stati tentativi quelli per evitare l’agonia del sistema. E comunque sia un medico è tale dal primo giorno in cui acquisisce la laurea all’ultimo giorno di vita. È un dovere morale quello di darsi da fare, e accettare di ritornare sul campo di “battaglia” anche dopo la pensione. Perché c’è un bisogno superiore… Quindi secondo me è stato giusto richiamare in corsia chi se l’è sentita. Abbiamo rispettato il Giuramento di Ippocrate che tra le tante cose chiede di essere sempre disponibile, perché si ha il camice per tutta la vita».

Ha un’immagine di queste settimane che porta nel cuore?
«Sicuramente la passione, non solo clinica ma anche umana, che ho visto crescere nei giorni iniziali da parte dei miei colleghi. Ognuno di noi ha dato il massimo per poter migliorare questa difficile situazione. Più che un’immagine, vorrei lasciare questo messaggio. Ho visto la sofferenza di una collega a Vercelli sotto il casco della C-pap. Si tratta di una specie di grosso secchiello di plastica trasparente, fissato con delle cinghie alle ascelle, in cui all’interno si gonfia e viene creata un’iperpressione. Quando il malato inspira questo ossigeno ipercompresso, l’inspirazione subisce la forza della pressione che aiuta così a dilatare le parti più chiuse dei polmoni. Vivere dentro questo casco è molto faticoso: i pazienti sono coscienti, respirano in maniera affannosa, hanno questa “fame d’aria” e te la comunicano con l’ansia delle loro parole. Senti la vita sfuggire via, mentre stai soffocando. Un trauma terribile sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista emozionale. Questa è l’immagine che oggi, riferita a un evento imprevedibile, dovrebbero vedere tutti quelli che escono senza un valido motivo. Provate, almeno per un minuto, a vedere che cos’è un essere umano dentro quel casco, e cambiereste i vostri comportamenti…».

Alessandro Venticinque

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