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Dopo Corso, l’ultimo saluto anche a Prati

“La testa e la pancia” di Silvio Bolloli

Negli ultimi giorni il calcio italiano ha perso due stelle del passato, forse troppo rapidamente dimenticate: Mariolino Corso (in foto qui sotto), di cui sentii parlare allorquando, ragazzino mi accostai al calcio, in termini quasi leggendari e Pierino Prati (nella foto di copertina), al quale è legato un altro curioso aneddoto della mi gioventù.

Corso aveva avuto una fugace esperienza da allenatore, mi pare proprio dell’Inter, negli anni ‘80 sicché quando, imberbe appassionato, domandai a mio padre chi fosse, seppi, da lui e da altri conoscitori del calcio anni ‘60 che si era trattato di un eccellente “piedi buoni” dell’Inter di Helenio Herrera anche se solo di recente ho scoperto che con il mago sudamericano il rapporto del Mariolino nazionale non era stato poi così buono e che il suo talento cristallino fu messo un po’ in ombra da quello, forse superiore, del “nostro” Gianni Rivera.

Quanto a Pierino Prati, ricordo invece ciò che mi disse di lui un vecchio amico giornalaio non più in attività, grande milanista e calciofilo, circa venticinque anni or sono utilizzandolo, forse un po’ ingenerosamente, quale cartina di tornasole per misurare il talento di Gianni Rivera: il ragionamento era che, pur non essendo egli il miglior centravanti della sua generazione, riusciva comunque a segnare a grappoli proprio perché l’ex golden-boy del calcio mandrogno gli sapeva piazzare la palla sull’alluce da una parte all’altra del campo con lanci radiocomandati ben prima che si sentisse parlare di Pirlo, Modrić o di un certo Platini.

Sia come sia, al di là del valore degli uomini e del loro ricordo tra le gesta sportive di chi li vide all’opera ai tempi d’oro, e al di là della memoria tramandata dai bibliofili, non posso fare a meno di pensare all’antesignana della Milano da bere degli anni ’80, a quella capitale lombarda degli anni ’60 capace di esprimere due squadre – l’Inter e il Milan per l’appunto – in grado d’imporsi ai livelli più alti del mondo, dalla Coppa dei Campioni (al tempo non si chiamava ancora Champions) ai fasti dell’Intercontinentale.

Ma è un’altra la considerazione che mi sorge spontanea, ed è l’idea di quanto quelle squadre esprimessero il meglio dell’imprenditoria italiana del loro tempo (leggasi Rizzoli e Moratti) e calciatori di primissimo livello che erano però tutti figli dell’Italia del boom. Non sono milanista né interista ma ecco, se penso al calcio della “Madunina” di quegli anni (e non solo, anche a quello di Bologna, o di Firenze, tanto per fare altri esempi) mi rendo conto di quanto oggi, nel nostro disastrato Paese, sia, a ogni livello, indispensabile recuperare talenti cristallini e valorizzare i nostri figli migliori.

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