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Il 20 settembre e la breccia di Porta Pia

Tra fede e storia

Domenica scorsa, 20 settembre, schiacciato tra il voto per il referendum e i quotidiani bollettini covid, è completamente passato sotto silenzio un anniversario importante per tutti gli italiani. Infatti a 150 anni da quel 1870 che vide la presa di Roma con la celebre “breccia di Porta Pia”, rimane la domanda sul significato di simili avvenimenti. Anche se sembrano ormai sorpassate le polemiche revisioniste, diffuse in qualche ambiente cattolico, nei confronti di un Risorgimento dipinto tutto come anticlericale e premeditatamente volto alla distruzione della Chiesa, talvolta riaffiora qualche critica in tal senso, non sempre ben informata.

La storia è nota: nel contesto delle iniziative risorgimentali, l’unificazione italiana ha portato alla scomparsa dello Stato pontificio e alla perdita del potere temporale del papa, fino ad allora ritenuto una garanzia dell’autonomia del pontefice e necessario per lo svolgimento della sua missione apostolica. Dopo il 1870 la posizione della Chiesa si fece effettivamente più delicata, con momenti anche drammatici: si accentuava un certo controllo sulla vita interna (nomine dei vescovi) e la legislazione anticlericale (come le leggi Siccardi) fu estesa a tutta Italia, con la requisizione dei beni ecclesiastici e la soppressione degli ordini religiosi.

Si trattava d’iniziative spesso mosse da un’ottica antiecclesiastica, ma anche indirizzate a mettere in campo le necessarie riforme che abolivano i privilegi per trasformarli in libertà e diritti per tutti. A causa poi del “non expedit” (“non conviene”), che vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica, fino all’inizio del ‘900 essi sparirono dal parlamento, si creò una classe dirigente ostile alla Chiesa e lo scontro tra i governi e la Santa Sede andò aumentando. Furono così le reciproche incomprensioni a prevalere e si giunse alle scomuniche e alla rottura delle relazioni diplomatiche: i papi fino a Pio XI, considerandosi prigionieri in Vaticano, rivendicheranno la “questione romana” sino ai Patti Lateranensi del 1929.

Di fronte a tale situazione, l’atteggiamento della maggioranza dei cattolici, specie clero e religiosi, fu di chiusura e di opposizione a ogni accettazione del nuovo corso. Certo non mancarono cattolici liberali, che immaginavano le libertà moderne coniugate con la fede cristiana, tuttavia la linea prevalente fu l’intransigentismo. Si guardava al passato, per una restaurazione che cancellasse quelle “novità” che, scaturite dalla Riforma protestante, erano passate attraverso l’illuminismo ateo e la Rivoluzione francese, e giungevano ora, in una ininterrotta catena di errori, al liberalismo nemico della Chiesa.

È questo il clima di massima contrapposizione tra Chiesa e mondo moderno nel quale nasceva il Sillabo (1864) e in cui si celebrava il Concilio Vaticano I (1869-1870): la Chiesa si percepiva come una fortezza assediata che si difende e custodisce le certezze di cui è depositaria, una realtà che si deve separare dal mondo per sopravvivere, creando distanza tra se stessa e la società moderna, decisa a perdersi nell’errore e nell’oscurità. Un simile approccio, oggi, appare così distante da una Chiesa che si impegna a condividere sempre più «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi» (Gaudium et spes 1), e che, secondo le parole di Giovanni XXIII in apertura di Concilio (11 ottobre 1962), «preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che quella della severità», per porre fine ad uno stile e ad un linguaggio divisivo, di condanna o di sospetto, gettati dall’alto verso il mondo moderno, imparando piuttosto uno sguardo di materna partecipazione alla vita degli uomini.

Papa Francesco, nel suo messaggio per l’apertura delle attuali celebrazioni per i 150 anni di Roma capitale (3 febbraio 2020), riprendendo un’espressione del card. Montini ha definito «la proclamazione di Roma Capitale» come «un evento provvidenziale, che allora suscitò polemiche e problemi. Ma cambiò Roma, l’Italia e la stessa Chiesa: iniziava una nuova storia», in cui, pur attraverso momenti diversi, la Chiesa «ha condiviso le gioie e i dolori dei romani» e degli italiani. Con acuta visione, inoltre, il papa esorta a guardare avanti, come comunità nazionale e cristiana, ricordando che «spesso la dimenticanza della storia si accompagna alla poca speranza di un domani migliore e alla rassegnazione nel costruirlo». Invece «assumere il ricordo del passato spinge a vivere un futuro comune». L’Italia, Roma e la Chiesa, egli ricorda, avranno «un futuro, se condivideremo la visione di città fraterna, inclusiva, aperta al mondo». 

Stefano Tessaglia

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