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Vini storici della Fraschetta: c’erano una volta Nerello e Bacò

“Alessandria racconta” di Mauro Remotti

Pur non potendo vantare una grande tradizione di produzione vitivinicola, nei secoli passati la piana della Fraschetta vedeva la presenza di diversi vitigni autoctoni. In particolare, era diffuso il Nerello o Neretto, un vino rosso simile al Grignolino casalese che ben si adattava ai terreni ghiaiosi – nonché acidi e siccitosi nel periodo estivo – che ne smorzavano il vigore riducendo la sua tendenza alla colatura degli acini. Secondo quanto riportato da Stefano Raimondi, Daniela Torello Marinoni e Anna Schneider in Neretto di Marengo, Italian Vitis Database (www.vitisdb.it), le prime notizie riguardanti un Neretto risalgono alla fine del XVIII secolo da parte di don Spagarino, sacerdote della valle Belbo.

A sua volta, nel libro “Sulla coltivazione delle viti e sul metodo migliore di fare e conservare i vini”, Giuseppe Nuvolone Pergamo descrisse due vini che potevano riferirsi al Nerello: l’Anré dei Monferrini e l’Annerato di Valenza. Il vino frascarolo era noto anche come “vino dei Generalissimi” avendo dissetato sia Napoleone nel corso della battaglia di Marengo del 1800 sia, un anno prima, il comandante delle truppe austro-russe Aleksandr Vasil’evič Suvorov.

I tratti morfologici di questo vitigno furono poi annotati ne “I giornali dei viaggi” da Giorgio Gallesio, il quale aveva avuto modo di osservarlo nella pianura di Novi Ligure dove era chiamato “Uva da cane”, e da Giuseppe Di Rovasenda a proposito dei vini rossi prodotti dal conte Manfredo Balbo Bertone di Sambuy.

Il Neretto di Marengo aveva una ridotta produttività, soprattutto durante l’età giovanile delle piante; tuttavia era caratterizzato da una buona dotazione zuccherina oltre che da un’acidità equilibrata. Al di fuori della Fraschetta, la coltura del Nerello non riuscì però ad affermarsi, rischiando anche di scomparire per sempre a causa delle terribili malattie della vite di fine Ottocento: lo oidio, la fillossera e la peronospora. Nella zona si importarono dunque nuovi vitigni più resistenti: il barbera, il nebbiolo, il bacò, la verdea, la luglienga, l’otello.

Tra questi, il bacò, originario della Francia (ottenuto nei vigneti sperimentali dell’Università di Montpellier) ebbe la maggior fortuna nel territorio alessandrino. Secondo alcuni, gli fu attribuito tale appellativo in onore del dio romano del vino. Altri sostenevano invece che derivasse dal nome dell’enologo francese, Francois Baco, il quale per primo incrociò la vite europea (Vitis vinifera) con quella americana (Vitis riparia) conseguendo una varietà definita appunto Baco noir. Il vitigno presentava dei grappoli allungati e compatti con piccoli acini neri a polpa molle. Il vino aveva una gradazione tra i 10 e 13 gradi, era molto colorato e con un’elevata acidità, mentre il gusto ricordava quello dei frutti di bosco.

Si produceva in piena estate, benché non reggesse a lungo le temperature elevate e gli sbalzi termici. Una legge emanata negli anni Trenta del secolo scorso lo mise al bando a causa del suo alto tasso di tannino e perché sviluppava nel corso della vinificazione il nocivo alcol metilico. Ancora oggi le uve di bacò non possono essere trasformate in vino, poiché le norme europee stabiliscono che si debbano utilizzare solamente le piante di Vitis vinifera.

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