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Un anno di Covid

11 febbraio: Giornata mondiale del malato

«Ieri abbiamo vaccinato 330 persone». Comincia così la mia chiacchierata telefonica con la dottoressa Pinuccia Omodeo, dirigente medico malattie dell’apparato respiratorio, responsabile allergologia presso l’Azienda ospedaliera di Alessandria. Io, che sono stato un suo paziente (difficile) all’ospedale di Alessandria durante la “prima ondata” dell’emergenza Covid, le chiedo di raccontarmi che cos’è oggi per lei il rapporto medico-malato. Le do del “tu” (lo farò anche con gli altri intervistati). Abbiamo condiviso un pezzo di strada che ci rende inevitabilmente amici, sarebbe ipocrita far finta di niente.

Pinuccia, che impatto ha avuto il Covid nella tua vita?
«La prima ondata è stata davvero incredibile, più della seconda. È stata inaspettata: una tempesta emotiva, di adrenalina, una valanga… Ti trovavi completamente nudo, con la necessità in quanto medico di dover fare qualcosa per malati che arrivavano con una patologia gravissima, che oltretutto non si conosceva. I pazienti erano isolati, non potevano ricevere visite e tu dovevi farti carico di tutto: della cura e dell’assistenza medica, che quasi ogni giorno cambiavano, e del carico “umano” che emergeva durante il ricovero, quando tu, medico, eri l’unico riferimento di persone disperate e malate che vedevano solo te. Potevi dedicare a ciascuno di loro poco tempo perché non ne avevi, ma le tue parole erano linfa vitale, eri l’unico loro appiglio nella sofferenza. Per non parlare del rapporto con i parenti, a volte drammatico: la sera prima cercavi di dare un po’ di speranza, e magari il giorno dopo dovevi dire che il loro caro non c’era più. Questa è stata la cosa più devastante, di cui ci siamo fatti carico tutti, medici, infermieri e personale sanitario. Con uno spirito di équipe in cui l’unione ha fatto la forza».

Che cosa hai imparato?
«Umanamente, ho guadagnato la consapevolezza di essere una persona fortunata, perché ho una famiglia che mi ha supportato senza mai chiedere nulla. Professionalmente, ho portato a casa il rapporto col paziente, fulcro dell’attività di ogni medico. Possiamo essere molto preparati sul piano scientifico, e giustamente la medicina va avanti, anche rapidamente… ma se non ci rendiamo conto di avere davanti a noi una persona, se non curiamo anche la sua anima, non facciamo il nostro lavoro pienamente. Questo, oltretutto, mi dà serenità quando vado a casa, quando torno dalla mia famiglia».

La parola passa a Roberta Barison, Oss (operatrice socio-sanitaria) dell’ospedale di Alessandria, in prima linea nei giorni del Covid (ai tempi della prima ondata, e oggi). «Sto faticando tanto, mi mancano gli abbracci!» mi dice subito, commossa.

Roberta, che cosa hai imparato dall’esperienza nel reparto Covid?
«Ci siamo ritrovati di punto in bianco in quella baraonda, eravamo smarriti… da lì abbiamo iniziato con tantissima paura, perché il Covid non sapevamo né che cosa fosse, né come fronteggiarlo. La cosa più pesante erano gli sguardi dei malati, terrorizzati, soli, che non sapevano che cosa stava succedendo. E poi ho in mente quelli che non ce l’hanno fatta, a cui ho tenuto la mano fino alla fine. Sai, era un po’ come trovarsi in guerra, anche solo uno sguardo faceva la differenza. Mi ha segnato tanto, questa esperienza, soprattutto mi ha permesso di crescere nell’umiltà. E se prima aiutavo, adesso aiuto ancora di più! Chi non ha vissuto “da dentro” il Covid non può capire… non dimenticherò mai il terrore che ho visto negli occhi dei pazienti».

Tu nel reparto pregavi per i malati.
«Avevo sentito il Papa in tv dire che si poteva accompagnare con la preghiera chi stava per lasciare questo mondo. A me è capitato parecchie volte di farlo, alcuni mi sono morti tra le braccia. Essere soli nella morte non è giusto, e io mi sono messa nei panni di un loro caro (si commuove, ndr). Lo rifarei».

Adesso tocca a don Stefano Tessaglia, cappellano dell’Ospedale civile di Alessandria. Anche lui era (ed è) in prima linea nei reparti, a contatto con i malati, non solo di Covid. Ogni giorno sta di fronte a quella sofferenza che san Giovanni Paolo II (che nel 1992 ha istituito la Giornata mondiale del malato) ha definito “salvifica”.

Don Stefano, il tema di questa Giornata è “Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli (Mt 23,8). La relazione di fiducia alla base della cura dei malati”. Ce lo puoi spiegare?
«Ogni anno la Giornata mondiale del malato, che si celebra dal 1993, ci propone un brano della Scrittura per guidare la riflessione. In questa edizione il tema è “Voi siete tutti fratelli”: il versetto biblico davvero ci aiuta a considerare una situazione, quella della pandemia, che ci accomuna tutti da un anno. Ebbene, la possiamo affrontare e vincere solo se siamo uniti e stiamo insieme. Il versetto però si completa con: “Uno solo è il vostro Maestro”. Certo, siamo tutti sulla stessa barca: per noi cristiani questa barca non è abbandonata, ma ha un timoniere che è il Signore. Lui ci guida e noi siamo tutti fratelli in cammino, sani e malati, chi cura e chi è curato».

Nel suo messaggio per la Giornata di quest’anno, il Papa scrive: «Quando si riduce la fede a sterili esercizi verbali, senza coinvolgersi nella storia e nelle necessità dell’altro, allora viene meno la coerenza tra il credo professato e il vissuto reale. Il rischio è grave». Cosa significa?
«Il rischio che corriamo in questo tempo è che la pandemia diventi soltanto un “caso” di cui parlare, uno sforzo o un discorso, anche ecclesiale, senza però avere il volto concreto di un fratello. Chi invece è impegnato quotidianamente con la malattia proprio in questo periodo ha imparato che il prendersi cura di qualcuno non lascia mai indifferenti. La “differenza”, dunque, non sta nelle parole ma in una vicinanza concreta».

Andrea Antonuccio

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