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La vera sfida pastorale? Il mondo dopo il Covid

Intervista al cardinal Mauro Piacenza

L’8 dicembre 2020 papa Francesco ha indetto un Anno speciale di San Giuseppe, nel giorno dei 150 anni del “Decreto Quemadmodum Deus” con il quale il Beato Pio IX dichiarò San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica. «Al fine di perpetuare l’affidamento di tutta la Chiesa al potentissimo patrocinio del Custode di Gesù» si legge nel decreto del Vaticano «Papa Francesco ha stabilito che, dalla data odierna, anniversario del Decreto di proclamazione nonché giorno sacro alla Beata Vergine Immacolata e Sposa del castissimo Giuseppe, fino all’8 dicembre 2021, sia celebrato uno speciale Anno di San Giuseppe».

Sempre l’8 dicembre 2020, il Santo Padre ha pubblicato la Lettera apostolica “Patris corde – Con cuore di Padre”, dedicata al padre putativo di Gesù. A questa Lettera, che è stata anche spunto dei nostri Martedì di Quaresima, ha “contribuito” in maniera consistente il cardinal Mauro Piacenza (nella foto in apertura, insieme con il Papa), attuale Penitenziere maggiore presso il Tribunale della Penitenzieria Apostolica. In questa intervista (in esclusiva per Voce Alessandrina), gli abbiamo chiesto di approfondire i contenuti della Lettera. E non solo.

Eminenza, nell’Udienza alla Penitenzieria Apostolica del 12 marzo di quest’anno, papa Francesco ha “confessato” che è lei l’autore della “Patris corde”.

«Sì, insomma… in qualche modo (sorride). Io ho ricordato al Santo Padre quello che era successo 150 anni fa (la promulgazione del “Decreto Quemadmodum Deus”, ndr), mi pareva importante non lasciare in silenzio una data decisamente rilevante. E lui ha subito accolto l’indicazione, dicendomi anche: “Lei potrebbe scriverla”. Mi ha anche raccontato che quando era in Argentina aveva un quaderno in cui aveva steso degli appunti su San Giuseppe per un progetto pastorale. Venuto a Roma, il Santo Padre ha recuperato fra le scartoffie anche quel quaderno, dicendomi che avrei potuto però redigere io una bozza di Lettera da fargli avere. Ho consegnato dopo qualche mese, e così ci sono in quel testo “cose nuove e cose antiche”. Comunque la Lettera è del Papa!».

Approfondiamone alcuni aspetti. Nel secondo punto leggiamo: «Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza».

«Guardando alla storia della Chiesa, diverse buone opere provengono da persone non sempre esemplari. Il Signore scrive diritto anche sulle righe storte, dal male fa emergere il bene. Penso, per esempio, a un uomo con una storia di peccato sulle spalle, che a un certo punto sente la voce di Dio che lo chiama al suo servizio ed entra in seminario. Costui potrebbe diventare un ottimo confessore, aiutando e sollevando chi va da lui a chiedere perdono, proprio per le esperienze che ha vissuto in precedenza».

Il quinto punto parla di “coraggio creativo”. Che cos’è, e come si sviluppa?

«Il coraggio creativo è stare in ascolto ed essere sensibili a quello che lo Spirito Santo ci dice. Pensiamo al coraggio di San Giuseppe, che ha creduto all’Annunciazione e ha preso decisioni così importanti per la sua famiglia. E quanto coraggio nelle opere di don Bosco, malgrado la miseria, le difficoltà e le incomprensioni, anche di molti suoi confratelli. Eppure, la sua creatività ha ascoltato lo Spirito Santo, che gli ha fatto trovare appoggi umani e gli ha permesso di creare un’opera di cui godiamo i frutti ancora oggi. Ma penso anche a don Orione, per stare più vicino alla vostra Diocesi… la lista dei Santi “creativi” è lunga».

Settimo punto: «La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio». Ce lo spiega?

«Il sacrificio più nobile è proprio il dono di se stessi, la purezza del sacrificio è donare se stessi. Il sacrificio non è un fatto negativo: è il dono della propria volontà nello spendersi per le opere di Dio, nella carità verso il prossimo. Il sacrificio, se non diventa dono di sé, è frustrante, genera insoddisfazione».

Eminenza, proviamo a toccare il tema del Covid. Nel periodo peggiore della pandemia, era il 20 marzo 2020, la Penitenzieria Apostolica ha promulgato un decreto per concedere speciali Indulgenze ai fedeli. Un gesto commovente, e inaspettato.

«Ci siamo chiesti che cosa potevamo fare come Penitenzieria, in un periodo drammatico in cui molti si trovavano nel momento più grave della loro vita a dover fare i conti con la morte, umanamente soli, senza un conforto. Ci siamo commossi di fronte all’opera di tanti medici, infermieri, personale sanitario… Allora ho radunato i miei collaboratori e ho detto loro: “Dobbiamo pregare, e fare un passo conseguente. Dobbiamo concedere tutto quello che possiamo concedere”. Noi abbiamo un tesoro, il tesoro che il Signore ha dato in mano al Papa: il potere delle chiavi che “aprono” lo scrigno delle Indulgenze, ovvero i sovrabbondanti meriti di Gesù, di Maria, dei martiri e dei santi tutti. Ecco, in queste situazioni si capisce bene cosa ci sta a fare la Chiesa nel mondo».

E come sarà il mondo dopo il Covid, secondo lei?

«Eh (fa una piccola pausa, ndr). Me lo chiedo tante volte, durante la mia giornata. Ho l’impressione che qualcosa cambierà certamente, ma non so se il cambiamento sarà nel senso che io sognerei, da sacerdote: pensare di più alla vita eterna, a ciò che conta, e che la liberazione viene dal Signore, non solo dalle forze umane. Vede, un tempo c’era un tipo di fede semplice quanto robusta, che oggi forse non abbiamo più neanche noi sacerdoti. Una fede popolare: in situazioni drammatiche come questa si alzavano gli occhi al Cielo, si pregava intensamente, si facevano opere di misericordia, si facevano processioni, voti ai Santi e alla Madonna, si celebravano Messe votive… Oggi invece abbiamo quasi paura: “Cosa potrebbero dire i media, cosa direbbe l’opinione pubblica della mia processione?”. Se ci penso, mi vergogno di me stesso. La struttura della società è lontana e non può comprendere perché abbiamo abbattuto tutto. Ci siamo illusi che la nostra pastorale fosse quella di inginocchiarci di fronte al mondo. Anche con buone intenzioni, per carità… ma non abbiamo servito la gente, bensì le nostre paure, i nostri complessi. Penso allora che questa del Covid sarà la vera sfida pastorale, e mi chiedo se sapremo affrontarla. Le opportunità ci sono, occorre saperle cogliere con quel coraggio indomito che viene dalla fede e con sana “creatività” pastorale».

Andrea Antonuccio

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