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Scomunica alle mafie in nome di Livatino

Parla don Giuseppe Di Luca, parroco di San Pio V e del Cuore immacolato di Maria ad Alessandria

«Per onorare Rosario Livatino, primo magistrato beato nella storia della Chiesa, che ha esercitato coraggiosamente la professione come missione laicale, presso il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è stato costituito un Gruppo di lavoro sulla “scomunica alle mafie”, con l’obiettivo di approfondire il tema, collaborare con i Vescovi del mondo, promuovere e sostenere iniziative». Con queste parole, il 9 maggio, giorno della beatificazione del magistrato siciliano, è stata annunciata la creazione della commissione di riflessione sui fenomeni criminali e la corruzione. Un’iniziativa significativa che rappresenta un ulteriore passo avanti del Dicastero presieduto dal cardinale Peter Turkson, che aveva già dato vita, nell’agosto 2018, a una rete globale internazionale su queste tematiche. A coordinare la neonata commissione è Vittorio V. Alberti, officiale del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Insieme con lui anche l’arcivescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi; il presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone, il presidente dell’associazione Libera don Luigi Ciotti. Poi ancora Rosy Bindi, già presidente della Commissione parlamentare antimafia; don Raffaele Grimaldi, l’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane; don Marcello Cozzi, sacerdote docente alla Lateranense, e monsignor Ioan Alexandru Pop del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi.

Don Giuseppe Di Luca (in foto qui sotto), parroco di San Pio V e del Cuore immacolato di Maria ad Alessandria, per i suoi studi universitari ha preparato una relazione sulle concordanze e discordanze tra rituali mafiosi e rituali di iniziazione cristiani. Gli abbiamo chiesto di spiegarci meglio questo fenomeno.

Don Giuseppe, in che modo la mafia fa uso della simbologia cristiana?

«I mafiosi utilizzano quasi tutta la simbologia di iniziazione cristiana ma con significati diversi. È impressionante vedere come ci sia una mescolanza di temi religiosi e mafiosi. Il gesto del pungere un dito con fuoriuscita di sangue, il bruciare un santino, la presenza di un padrino che testimonia che l’adepto è meritevole di entrare nel gruppo: questi atti di iniziazione, per esempio, presentano un qualche legame con la simbologia cristiana, che viene trasfigurata».

Come avviene l’iniziazione e quali sono le affinità con i riti cristiani?

«Anche per entrare in una cosca c’è un vero e proprio battesimo, che, in analogia a quello cristiano, crea allo stesso tempo un’appartenenza a una certa comunità e marca una separazione con chi non appartiene a quel gruppo. Quasi mai un mafioso pentito può sbattezzarsi. Il battesimo mafioso avviene così: prima c’è la benedizione del luogo, che non è mai solenne (come un tempio, per esempio), ma è sempre un luogo quotidiano e semplice che non dia nell’occhio, come uno scantinato. Dopo la benedizione c’è un giuramento recitato a memoria o pronunciato sotto forma di risposta a delle domande, alla presenza del padrino, che testimonia l’adeguatezza dell’adepto. Si punge poi il dito del battesimando e il sangue finisce su un’immagine sacra, che viene bruciata: l’ardere del santino funziona da ammonimento per il neofita, che pronuncia una sorta di maledizione, che recita all’incirca: “come brucia l’immagine brucerò anche io”. La puntura al dito sottende il tòpos del sangue: il coraggio, la mascolinità e quella che ho chiamato nella mia esposizione “omineità”, cioè l’essere uomini e tutto ciò che ne consegue. Legato al rito battesimale c’è poi il segreto, simile a quello che tenevano i primi cristiani come custodia del mistero di Cristo. Il rito mafioso tiene questa segretezza, e infatti tutto viene trasmesso oralmente».

Per quali motivi questi riti di iniziazione rivestono una tale importanza in un’organizzazione mafiosa?

«Su questo punto, ho messo in luce nella mia relazione due tesi. La tesi del contratto di status è di impronta weberiana: i contratti di status sono primitivi, durevoli e temporanei, e cambiano l’habitus della persona. L’iniziazione mafiosa, secondo questa tesi, sarebbe interpretata come la stipula di un contratto di status: il rito non è solamente una cosa simbolica, ma muta proprio lo status di una persona, che diventa uomo d’onore, con valori quasi di impianto medievale, come la violenza. L’altra tesi è quella, ispirata da Bourdieu, del capitale di reputazione: come esiste il capitale economico, esiste il capitale di reputazione. Il rito mafioso carica l’adepto di un capitale di reputazione molto grande, che si esplica nell’essere conosciuto per qualcosa e nel godere di un favore generalizzato. Se il contratto di status crea una reputazione di gruppo, il capitale è una questione di identità più personale, permette di diventare quasi un “superuomo”».

Anche l’inchino è un gesto utilizzato sia in alcuni riti cristiani, sia come gesto di rispetto mafioso…

«Sì, anche nei rituali mafiosi l’inchino è un tributo alla reputazione di una certa persona. Per noi è ovviamente una reputazione negativa quella di un criminale, ma loro trasfigurano ciò che per noi è negativo, come un omicidio, in positivo. La loro è una specie di distopia».

Perché è così difficile uscire dalla comunità mafiosa?

«Due sono i motivi che ho sottolineato. Una causa è la cosiddetta “path dependence”, “dipendenza dal percorso”, o meglio un’influenza degli eventi precedenti: per esempio, il fatto di appartenere a una certa famiglia o abitare in un tale luogo. Gli studi hanno dimostrato che non si tratta di una causalità diretta, ma sono fattori comunque molto influenti, che ostacolano il cambiamento. L’altra motivazione è da ricondurre invece ai cosiddetti “exit costs”, i “costi di uscita”: se esci dalla comunità mafiosa, vieni ucciso. Qui c’è un’importante differenza con la Chiesa: se da un momento all’altro decidi di non andare a Messa, non ti si presentano costi di questo tipo. In alcune sette religiose, però, questo aspetto è presente e risulta difficile chiamarsi fuori dalla comunità dopo essere entrati a farne parte».

Alcuni mafiosi fanno e hanno fatto professione di devoto cristianesimo. Si può essere mafiosi e cristiani?

«La religiosità mafiosa non è una vera fede cristiana, è una fede religiosa che trasfigura simboli cristiani. Quante volte però, nel nostro piccolo, lo facciamo anche noi? Un conto è la religiosità che uno ha, un conto è la religione cristiana in questi casi. Poi va detto che in Italia la diffusione del cristianesimo ha favorito la vicinanza con la mafia e quindi l’utilizzo di riti presi a prestito dalla fede cristiana. Ma non basta dire di essere cristiani per esserlo: se uno va di continuo contro il Vangelo, non è cristiano. I simboli religiosi sono tra l’altro usati nelle cosche anche per incutere timore. Ma questo aspetto sacrale delle organizzazioni mafiose fa riflettere: aveva ragione il grande Durkheim, secondo il quale la religione è la base della società».

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