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Intervista a Veronica Biglia, atleta paralimpica a Tokyo

Le interviste di Voce

«Siamo atterrati in Italia lunedì 6 settembre, ma il fuso orario si fa ancora sentire». La voce è quella di Veronica Silvia Biglia, 33 anni di Gabiano (Alessandria), che da poco è ritornata a casa dopo la sua esperienza alle Paralimpiadi di Tokyo. La paratleta del “Cus Torino canoa e canottaggio” ha gareggiato nella specialità VL2 200 femminile, ma il suo sogno a cinque cerchi è terminato in semifinale. Per raccontare la sua storia, però, occorre tornare a qualche anno prima, nel 2013. Quando, dopo aver messo al mondo la figlia Emily, contrae la mielite trasversa, la sindrome clinica immuno-mediata del sistema nervoso centrale, che le provoca un danno neuronale al midollo spinale. Si ritrova in sedia a rotelle, tocca il fondo. Poi reagisce, inizia un percorso riabilitativo e conosce la canoa. Dopo poco comincia a vincere: in totale 15 titoli italiani, una medaglia di bronzo agli Europei, e infine la qualificazione per Tokyo. Accanto a lei la famiglia, il suo allenatore e lo staff. E, ovviamente, Emily al suo fianco, anche durante la nostra intervista.

Veronica, come sono andate queste Paralimpiadi a Tokyo?

«A livello umano e personale mi hanno arricchito tantissimo. Ho conosciuto molti atleti, di diverse nazioni e discipline, tutti con storie incredibili. Poi ho provato tante emozioni durante la cerimonia di apertura, unica nel suo genere. Passando alla mia prestazione, non sono contenta. Due anni fa mi sono qualificata a Tokyo con il sesto tempo nel Mondiale a Szeged, in Ungheria, e mi aspettavo di più. Arrivata in Giappone, ho avuto delle difficoltà con lo scafo della canoa, che non era speculare a quello che uso normalmente. L’ho provato il giorno prima della gara, ma non ho trovato la “confidenza” giusta, e ho fatto un tempo che facevo tre anni fa».

Facciamo qualche passo indietro. Dopo i 20 anni hai intrapreso la carriera da modella, poi sei rimasta incinta della piccola Emily. Ci racconti chi eri all’epoca?

«Ero una ragazza giovane, in piena salute, di un metro e ottanta. Magra come un chiodo, anche se mangiavo come un cinghiale (sorride). Ad Halloween del 2012 ho scoperto di essere incinta, ero al settimo cielo. Ho fatto una gravidanza stupenda, anche se sono rimasta da sola, senza compagno. Per questo mia figlia mi chiama “Mapà”, perché faccio da mamma e papà allo stesso tempo. Dopo il parto però è iniziato il calvario…».

Cioè?

«Ho avuto subito delle complicanze post-parto e sono rimasta ferma nel letto. Inizialmente era una paralisi facciale, 24 ore dopo anche una paralisi alle gambe. Mi hanno diagnosticato la mielite trasversa, la sindrome clinica immuno-mediata del sistema nervoso centrale, che mi ha provocato un danno neuronale al midollo spinale. Ho fatto un anno di ospedale (prende fiato). Per i primi cinque mesi non avevo l’uso della parola, per via della paralisi facciale. Per tornare a parlare normalmente ci ho messo tre anni. Poi sono tornata a casa».

Come hai reagito?

«Diciamo che non è stato facile, inizialmente avevo tanta rabbia addosso. Ma mia figlia è stato il motore che mi ha permesso di non arrendermi e non lasciarmi andare. All’inizio il nostro rapporto era complicato, non riuscivo a viverla nella sua quotidianità, ma con il tempo ci siamo ritrovate più vicine. C’è stato un gran lavoro, abbiamo fatto della diversità il nostro quotidiano. Tutti sognano di fare una vita normale con la propria figlia… Per me anche soltanto fare una passeggiata al parco è diverso. La mano che do a Emily è… la mia carrozzina!».

Emily come vive la tua malattia?

«Non mi ha mai fatto pesare la carrozzina… per lei sono una mamma come le altre, anzi per lei sono una “supereroina”. Per Emily la carrozzina è come se non esistesse, e quando vuole farmi uno scherzo la ruba e non me la dà più indietro (ride)».

In tutto questo, poco più tardi, è arrivata la canoa.

«Nel 2013, appena uscita dall’ospedale, pesavo circa 40 chili per un metro e ottanta. Poi, piano piano, ho iniziato a fare sport-terapia. La prima volta che sono salita sulla canoa è stato a gennaio 2016: non sapevo pagaiare, e inizialmente non andavo diritta, giravo attorno come un criceto. Invece, poi, è scattato qualcosa, e il primo titolo italiano l’ho vinto soltanto tre mesi dopo l’inizio degli allenamenti. Mia madre dice che solo sulla canoa mi torna il sorriso di prima, quando non ero in carrozzina. Se sono arrabbiata, triste o impaurita, inizio a pagaiare e sparisce tutto. Da quei 40 chili a oggi sono passati anni luce. In questi anni ho imparato che non si accetta la carrozzina, ma si impara a convivere con lei».

Eri arrabbiata anche con Dio?

«Ero arrabbiata con tutti. Ricordo bene che in ospedale avevo chiesto di fare la Comunione, ma una donna (Ministro straordinario dell’Eucarestia, ndr) mi disse di no, perché avevo una bambina ma ero senza marito. Ci rimasi molto male, perché in quel momento ne sentivo il bisogno».

E poi?

«Poi, per arrivare alla pace, arrivare alla mia nuova vita, ci ho messo tempo e lavoro. Perché questa è davvero una nuova vita, un’altra forma: è come ripartire da zero».

C’è stato un momento in cui avresti voluto mollare tutto?

«In questi cinque anni periodi negativi ne ho avuti parecchi. Per esempio, nel mio momento fisico migliore, ad aprile di quest’anno ho avuto il Covid. Quando sono ritornata in barca non andavo forte, e mi sono detta: “Chi me lo fa fare di andare a Tokyo?”. Piangevo, poi ho guardato mia figlia e ho trovato l’orgoglio per ripartire. A giugno è arrivata la medaglia di bronzo agli Europei di Poznan: non ero in forma, ho fatto un tempo alto, ma almeno ero con il mio scafo (sorride)».

Adesso cos’hai in programma?

«Sono delusissima dal risultato di Tokyo, e ho bisogno di uno stop. Non parteciperò ai Mondiali di settimana prossima, a Copenaghen. Ho ricevuto una convocazione in Nazionale, ma avevo bisogno di riordinare le idee, per ricominciare al meglio un altro triennio. Se andassi, anche se il fisico è a posto, il mio corpo ne risentirebbe perché ho la testa stanca. Purtroppo a Tokyo non c’era il mio allenatore, Matteo Tontodonati, che mi è stato accanto per cinque anni. Lui è uno dei motori fondamentali per le mie prestazioni. Bisogna ringraziare anche quella santa donna di mia madre, che mi sopporta e mi accompagna tutti i giorni a Torino per allenarmi. Anche loro concordano che è giusto prendere una pausa».

Una sua compagna di Nazionale, Ambra Sabatini, Oro nei 100 metri, ha detto: «Alle Olimpiadi si creano eroi. Alle Paralimpiadi arrivano gli eroi». Tu cosa ne pensi?

«Ripeto sempre questa frase: la disabilità è negli occhi di chi la vede. La ripeterò sempre. Il problema peggiore è guardare i disabili con occhi di disgusto o con occhi di commiserazione. Chi è disabile deve andare in giro ed essere fiero di quello che è. Molte volte, invece, in Italia non rispettiamo il prossimo. Sono stata in Giappone e barriere non ne ho trovate: sia architettoniche sia mentali. Ci hanno sempre accolti con il sorriso, senza sguardi di disprezzo. Si pensa sempre che se uno è in carrozzina ha meno opportunità rispetto a chi sta in piedi. Ma non è così, anzi spesso è proprio l’opposto. E questo va insegnato ai bambini».

Gli ottimi risultati della Nazionale italiana alle Paralimpiadi hanno attirato l’attenzione mediatica di tutti. Adesso cosa serve fare per tenere accesa questa luce sul mondo dei paratleti?

«Basterebbe dare lo stesso risalto che viene dato agli atleti normodotati. Sarebbe bello, durante l’anno, far conoscere le nostre storie, il modo in cui viviamo lo sport e la vita. Sarebbe ancora più importante andare nelle scuole: ci sono bambini disabili che non si avvicinano allo sport perché non c’è una comunicazione, non sanno di poterlo fare. Io ho avuto la fortuna di essere stata aiutata sin dai primi momenti da persone che mi hanno accompagnato in questo percorso. Senza di loro, avrei fatto fatica».

Hai un messaggio da dare a chi vive un momento di difficoltà?

«La vita ci pone degli ostacoli, noi dobbiamo essere capaci di affrontarli. Non è facile… La vita non è mai lineare, e ci porrà sempre degli scalini. Se non li superi, la vita ti mangia. Credo che buttarsi giù sia la parte più facile, rialzarsi invece è difficile. Però se ci riesci, quando ti rialzi sei più forte di prima… anche seduto sopra una carrozzina (sorride)».

Alessandro Venticinque

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