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Avere fede in Afghanistan

Intervista a padre Giovanni Scalese, rientrato in Italia da Kabul

«Non mi disturbate affatto, ditemi pure…». Chi ci risponde, dall’altra parte del telefono, è padre Giovanni Scalese (nella foto qui sotto), barnabita 66enne, dal gennaio 2015 superiore della missione “Missio sui Iuris” istituita da Giovanni Paolo II nel 2002, che a Kabul aveva il compito di guidare l’unica chiesa presente in tutto l’Afghanistan. Aveva, appunto; perché dal 15 agosto, appena dopo l’insediamento dei talebani in terra afghana, anche i componenti della missione sono dovuti rientrare con un volo organizzato dal governo italiano: alcune suore, due gesuiti, 14 bambini disabili da loro accuditi a Kabul. E, ovviamente, anche ​padre Scalese che adesso si trova a Roma, nella curia generalizia dei padri Barnabiti. È lì che riusciamo a contattarlo, per farci raccontare di più su questa emergenza umanitaria, che riguarda tutti. Anche noi, e la nostra Chiesa. Anche a cinquemila chilometri di distanza.

Padre Scalese, lei che cosa faceva in Afghanistan?

«Ero residente all’interno dell’ambasciata italiana, e la mia attività era di carattere pastorale per i cattolici in Afghanistan. Già dal 1933 un sacerdote barnabita venne scelto come cappellano, come punto di riferimento per i cattolici in terra afghana. Nel 2002 questa presenza è stata elevata ai gradi di “Missio sui Iuris”, ovvero una missione di diritto proprio, in un luogo dove il cristianesimo è poco presente. Per la situazione di questi ultimi anni, oltre la celebrazione della Messa si poteva fare ben poco. Ma anche questa ridotta attività liturgica ha avuto molte restrizioni, sia per motivi di sicurezza sia per motivi sanitari legati al Covid».

Poi la tensione all’interno del Paese, l’arrivo dei talebani in agosto e la vostra partenza. Quando siete rientrati in Italia?

«Siamo tornati il 25 agosto, là adesso non c’è più nessuno. È rientrato tutto il personale della missione. Una suora e due gesuiti indiani sono tornati in India, mentre io sono tornato in Italia con le cinque suore Missionarie della Carità e i 14 bambini disabili da loro accuditi a Kabul, grazie al ponte aereo organizzato dal nostro governo. Sono andato a trovarli, stanno bene, si sono sistemati in una delle Case dell’istituto religioso».

Avete avuto paura?

«Certamente la situazione non era delle migliori, si avvertiva un clima di tensione. Tanto è vero che il giorno dopo il nostro volo ci sono state le esplosioni all’aeroporto di Kabul. La nostra partenza è stata un vero e proprio miracolo: abbiamo preso l’ultimo volo utile. Se quel giorno non fossimo saliti, saremmo ancora lì. Sarebbe potuto accadere qualsiasi cosa da un momento all’altro, ma tutto è andato bene. Abbiamo davvero toccato con mano una protezione divina».

Adesso com’è la situazione? Vediamo notizie e immagini preoccupanti…

«Di stranieri non ne sono rimasti. Le truppe americane e degli altri Paesi sono partite, adesso è tutto in mano ai talebani. Dalle loro dichiarazioni parevano pieni di buona volontà, parlavano di un governo inclusivo, anche nei confronti delle donne, con la presenza di rappresentanti delle diverse correnti. Ma, come abbiamo visto, così non è stato. C’è da dire che la situazione è da sempre stata complessa. In sette anni ho visto un Paese in estrema difficoltà, sia per la povertà, sia per l’insicurezza. Gli attentati erano all’ordine del giorno, si viveva sempre nella paura che potesse succedere qualcosa di grave».

E a tutto questo si è aggiunto l’esodo del popolo afghano.

«Il desiderio di lasciare l’Afghanistan c’è sempre stato, proprio perché la vita era molto dura. Ma partire non era una cosa facile: i Paesi occidentali non permettevano visti per queste motivazioni, l’unica possibilità era fuggire e raggiungere i nostri territori clandestinamente. Adesso con queste evacuazioni, nelle ultime settimane, sono partiti in tanti. Mi sto tenendo in contatto con diverse persone che dopo aver fatto la quarantena si sono già sistemate qui da noi, e questo vuol dire che l’organizzazione italiana sta funzionando. Speriamo che riescano a inserirsi nella nostra società, che i bambini possano frequentare la scuola e gli adulti integrarsi nel mondo del lavoro. Questo esodo rappresenta un impoverimento per la società afghana: le persone scappate erano qualificate, il motore del Paese. Adesso l’Afghanistan sarà più povero, ma in questo momento la priorità era la loro sicurezza».

Dove vede Dio in questa tragedia?

«Dio è sempre presente, ovunque. In questi giorni, ho toccato particolarmente con mano la Sua presenza, anche se è una presenza misteriosa, difficile da capire. Non la si percepisce con i sensi esterni, ma con quelli interni. Sono convinto che Dio realizzi i suoi piani anche là dove a noi sembra assente».

C’è un momento che porta nel cuore?

«Sono rimasto molto colpito dalle suore, che non erano disposte a partire senza i loro bambini abbandonati e disabili. Questo mi ha fatto riflettere perché quelli che in Afghanistan vengono considerati come scarti, e per questo vengono abbandonati dalla società, per noi sono un tesoro, sono preziosi. Mi viene in mente quando a San Lorenzo fu chiesto di presentare le ricchezze della Chiesa, e lui presentò i poveri. In qualche modo è la stessa cosa per noi… Quali sono le ricchezze della Chiesa in Afghanistan? Questi bambini che, con tutti i loro limiti, rappresentano una ricchezza per tutti».

La sua fede com’è cambiata dopo questa esperienza?

«Più che cambiata, direi confermata. Per fare questo tipo di esperienza occorre avere fede, senza fede si farebbe fatica a fare ogni minima cosa. Una fede messa alla prova, giorno dopo giorno, ma che ha ricevuto le sue conferme. Una fede davvero irrobustita».

Quale sarà il futuro per la Chiesa in Afghanistan?

«Questo non possiamo saperlo, è chiaro che qualsiasi decisione dipenderà dalla Santa Sede. Se ci saranno le condizioni, sicuramente ritorneremo in quelle terre. Noi non siamo andati e non andremo in Afghanistan perché c’è un tipo di governo e non un altro. A noi non interessa la politica. Ma è necessario che ci venga permesso di svolgere la nostra attività senza rischi e pericoli. In quei luoghi lascio una fetta della mia vita, anche se ho potuto conoscere l’Afghanistan molto relativamente: si poteva girare pochissimo e i contatti con la gente erano limitati. Rappresentavamo la Chiesa, in una nazione che al 99 percento è musulmana. Eravamo come un seme gettato a terra. E, se Dio vorrà, quel seme un giorno porterà molto frutto».

Alessandro Venticinque

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