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«I disperati premono alle frontiere. E l’Europa alza i muri»

Intervista a Nello Scavo, giornalista di Avvenire

«Scusa se ti interrompo. È arrivata adesso in redazione la notizia di una bambina turca di 10 anni, che con la famiglia stava attraversando il fiume Dragogna tra Croazia e Slovenia, per raggiungere il cuore dell’Europa. Non ce l’ha fatta, è morta». Dall’altra parte del telefono, la voce che si ferma per qualche secondo è quella di Nello Scavo (nella foto), 49enne, giornalista di punta di “Avvenire“.

Da anni le sue inchieste e i suoi racconti mostrano il lato più duro e complesso delle migrazioni. Scavo è stato inviato speciale sulle navi di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. Ha raccontato le violenze e i traffici degli scafisti libici e, proprio per questo, dal 2019 è sotto tutela dello Stato. Ma non solo, ci racconta: «Ho fatto diverse volte a piedi tutta la rotta balcanica dalla Siria fino all’Europa, conoscendo diversi profughi e camminando per alcuni tratti di strada con loro. L’ultima volta, dieci giorni fa, sono stato al confine tra Croazia e Bosnia. Ma in questi ultimi mesi stiamo raccontando la frontiera orientale, al confine tra Bielorussia e Polonia. Proprio lì sono stato a metà ottobre».

L’emergenza migranti sulla frontiera orientale è apparsa per qualche settimana su tg e giornali, ma la crisi umanitaria (e politica) continua. Così come continua il dramma di tutte quelle persone che tentano di fuggire dal proprio Paese per trovare un futuro in Europa. Il nostro vecchio continente anche in questa occasione sembra voltarsi dall’altra parte, senza accogliere il grido disperato di aiuto proveniente dalla Libia al Mediterraneo, fino alla Bosnia e alla Bielorussia. Anche per i migranti, in modo diverso, arriverà il Natale.

Scavo, partiamo dalle ultime tensioni tra Bielorussia e Unione europea, che stanno interessando anche tutti gli altri Paesi intorno. Cosa sta succedendo?

«Succede che persone vengono utilizzate come armi non convenzionali per una guerra asimmetrica tra Paesi. Un confitto, non dichiarato, che coinvolge diverse entità. Da quello che sappiamo, il presidente bielorusso Aliaksandr Lukashenko, con il “padrinaggio” di Putin, ha deciso di ordinare una rappresaglia contro l’Europa per avere subito anni fa diverse sanzioni. E lo ha fatto organizzando voli aerei con compagnie statali e concedendo visti turistici a decine di migliaia di migranti turchi, iracheni, siriani, egiziani e da tutto il Medio Oriente. Vendendo loro, per diverse migliaia di euro, l’illusione di poter entrare in Europa. Ma arrivate al confine, queste persone sono andate a sbattere con il muro dell’Ue, che ha deciso di respingere tutti, senza pietà. Da luglio a oggi sono circa 12 mila i migranti, tra cui anche molte donne e bambini, che hanno provato a passare per quella frontiera. Un dato bassissimo, meno del 5% di tutti i migranti che hanno tentato il loro ingresso in Europa quest’anno. Si tratta di una crisi umanitaria che ha visto decine di morti. Non più alle porte, ma dentro i nostri confini europei».

Ci riempiamo sempre la bocca parlando di diritti umani: è tutta retorica?

«Viviamo in un momento in cui i diritti umani vengono violati, in molte forme. E il tema della migrazione rende plastica tutta questa contraddizione intorno ai diritti umani, che pensavamo acquisiti, scontati. Ma in Europa non lo sono più».

A queste tensioni l’Unione europea ha risposto?

«L’Ue ha risposto investendo 21 miliardi di euro, nel bilancio dal 2021 al 2027, per il controllo delle frontiere. Appaltando ai più grandi produttori di armi da guerra, che stanno producendo filo spinato e mezzi militari come droni, satelliti, foto-trappole e aerei. Questa è la risposta dell’Europa. Prevedo che una piccola parte di migranti passerà, grazie all’intervento dell’Alto commissariato Onu, ma l’intenzione è di respingere tutti. Seguendo questa direzione, la Polonia ha già programmato la creazione di una barriera fisica di 180 chilometri. Ma anche la Lituania, che fino a questo momento sembrava più “morbida”, è destinata a fare altrettanto, con una barriera di 500 chilometri. L’Europa ha risposto alla guerra con la guerra».

Cosa non raccontano i giornali e le televisioni?

«Ci sono diversi problemi, anche se sulla crisi bielorussa c’è stata una copertura maggiore. “Avvenire” e il “New York Times” erano lì a inizio ottobre, quando ancora nessuno credeva alla gravità della crisi. C’è anche un altro aspetto: dalla Polonia vi è stato il divieto di ingresso ai giornalisti e alle organizzazioni umanitarie; di contro, Lukashenko ha concesso di avvicinarsi per far conoscere e screditare la parte polacca e il comportamento della polizia. Così abbiamo potuto vedere diversi migranti nelle foreste, siamo tuttora in contatto con loro, e questo ci permette di avere immagini dal confine. La tua domanda è corretta, perché il problema di fondo è che i giornalisti faticano a interpretare: raccontiamo una realtà attraverso lenti deformate».

Cioè?

«Faccio un esempio. C’è una politica che in questi anni ha cavalcato e ha fondato le proprie campagne elettorali sul clima di odio sul tema delle migrazioni, utilizzando anche giornali e media, a servizio di questo linguaggio. Oggi, di fronte a questa crisi umanitaria, fatica a ravvedersi. Quindi è inevitabile che i racconti di giornali e televisioni siano differenti, non unanimi. Altro elemento è la guerra in Afghanistan. Per 20 anni ci siamo raccontati di essere in quei luoghi per portare la pace, poi ci siamo accorti che le cose non erano così. E adesso, dopo i fatti di questa estate, raccogliamo i frutti di quella guerra: 5 milioni di profughi che bussano alle nostre porte. Ad agosto le prime pagine dei giornali italiani, piene di immagini dell’aeroporto di Kabul, hanno sollevato un forte impatto emotivo, un forte spirito di accoglienza. Poi ci siamo dimenticati tutto, e adesso li respingiamo con il volto duro e spietato dell’Europa. Ma quelle persone, che oggi soffrono e perdono la vita, sono le stesse che “sbandieravamo” nelle prime pagine dei nostri giornali».

Nel suo viaggio apostolico a Cipro e in Grecia, papa Francesco è stato duro con l’Ue, definendo l’abbandono dei migranti un «naufragio della civiltà». Cosa ci dicono queste parole così dure e sferzanti?

«Nell’ottica del Papa, che ha cambiato il nostro modo di raccontare le cose in questi anni, vi è la Terza guerra mondiale combattuta a pezzi, che ha diversi interessi di vario tipo. Oggi siamo di fronte a oltre 82 milioni di profughi: secondo le Nazioni unite, si tratterebbe del numero più alto di sempre, anche della Seconda guerra mondiale. Il Papa invita l’Europa a una responsabilità. E negarla, o non riconoscerla, per il nostro continente vuol dire tradire se stesso. Ci avviciniamo al Natale, e come sempre ci riempiamo la bocca con le nostre radici giudaico-cristiane. Ma dimentichiamo che anche quella famiglia, quella di Gesù, è stata costretta a scappare in Egitto. Credo che il Papa sia davvero deluso, e le sue dichiarazioni lo denunciano chiaramente. Cinque anni fa si era recato a Lesbo, chiedendo un miglioramento delle condizioni del campo profughi. Ma tutto questo non è stato fatto. E oggi le circa 2.400 persone che sono lì vivono in condizioni peggiori, anche rispetto a quando erano in 40 mila».

Nel confine tra Polonia e Bielorussia, il 18 novembre un bambino siriano di un anno è morto nella foresta, dove si trovava da un mese e mezzo con i genitori. Sempre lì, venerdì 3 dicembre, Avin Irfan Zahir, donna curda di 39 anni, è morta con un bimbo in grembo di sei mesi… era con il marito e gli altri cinque figli. Si continua a morire, insomma.

«Purtroppo credo che i morti siano molti di più, a dircelo sono i migranti. A fine ottobre, quando ero in Bielorussia, avevamo avuto notizie di alcuni morti, quattro o cinque, grazie alla testimonianza degli stessi profughi. Alcuni si separano per complicare il lavoro della polizia, per avere più chance di raggiungere il confine, e spesso perdono i contatti tra di loro. Da pochi giorni sono tornato dalla rotta balcanica, non abbiamo voluto pubblicare le foto di corpi di migranti sbranati e spolpati dalle bestie nella foresta… non sappiamo se sono morti prima o sono stati assaliti ancora vivi dagli animali. Ne conosciamo una piccola parte, come nel Mediterraneo, dove le navi affondano in mare e trovare i corpi è quasi impossibile».

Perché in Italia viviamo in modo diverso i flussi migratori del Mediterraneo, rispetto a quelli via terra? Li sentiamo meno vicini?

«Credo ci sia un problema legato al colore della pelle delle persone. In Libia avvengono crimini, il Papa ha parlato di “lager”. Li abbiamo raccontati, e continueremo a farlo. Però si continuano a pagare le milizie per commettere questi crimini, perché bisogna fare in modo che queste persone non arrivino da noi. Il migrante col barcone salta agli occhi, e la reazione dell’opinione pubblica è spesso violenta. Al contrario, le altre rotte vengono enfatizzate e alimentate da quelle politiche di cui parlavamo prima. Fa riflettere vedere gli stessi leader politici che prima usano parole pietistiche per la Giornata della violenza sulle donne, e poi continuano a finanziare e alimentare la macchina degli stupri dei “lager” in Libia».

A quali leader si riferisce?

«Da Minniti a Salvini, fino all’attuale governo. Su “Avvenire” lo scriviamo da almeno cinque anni, e sul nostro sito www.avvenire.it si trovano tutte le inchieste. Anche l’ultima, della quale abbiamo pubblicato le prime due puntate, proprio sul cartello criminale tra Italia, Malta e Libia. Ecco perché dal 2019 sono finito sotto protezione».

Cosa vuol dire vivere sotto la protezione dello Stato?

«Pochi giorni fa, ho ricevuto il premio Cidu (Comitato interministeriale per i diritti umani, ndr) dal Ministero degli esteri. In questa occasione ho avuto modo di ricordare i diversi colleghi all’estero che hanno dovuto lasciare la propria terra per salvare la pelle. Noi siamo fortunati, perché le autorità hanno capito, per prime e per tempo, che era fondamentale predisporre un dispositivo di tutela. Questo, infatti, con una serie di accorgimenti permette a chi è in pericolo di continuare a lavorare. Chi ha sperato di fermare il nostro lavoro, è rimasto deluso: mai come in questi anni le inchieste e le collaborazioni di “Avvenire” finiscono sui giornali di tutto il mondo. Le preoccupazioni ci sono, per me e la mia famiglia, bisogna adattarsi a una serie di cambiamenti. Ma penso sempre a quei colleghi che non hanno la mia stessa fortuna. Uno Stato che viene messo sotto inchiesta dalla stessa stampa, ma che ha al suo interno delle istituzioni che tutelano il lavoro del giornalista, dimostra una grande maturità democratica. E grazie a questa presenza encomiabile arriviamo più in profondità, e possiamo raccontare fino in fondo la realtà che ci circonda».

Torniamo al dramma dei migranti. C’è un senso a tutto questo?

«Io sono un cattolico che lavora per una testata cattolica, ma ai miei lettori devo parlare da giornalista. Questo non significa che non mi ponga certe domande. Ognuna di quelle storie va percorsa a ritroso. Allora, non chiediamoci dov’è la fede nelle frontiere, ma dov’è nei luoghi da dove i migranti fuggono? Lì, allora, troviamo interessi squallidi che hanno nomi e cognomi. Il Papa ha usato l’immagine del pane sporco. Quel pane sporco che permette ad alcuni di guadagnare tanto ai danni degli ultimi, dei più poveri».

Un Natale tra violenza, freddo e miseria. Gesù Bambino nasce anche lì, tra la sofferenza dei profughi?

«In questi anni, se avessimo dovuto raccontare e vedere solo il male, saremmo finiti in un ospedale psichiatrico, sono ferite che lacererebbero chiunque. E dare voce a queste persone, che altrimenti non l’avrebbero, è ciò che ci dà forza. Gesù Bambino nasce anche lì. Nasce per i tantissimi samaritani sul fronte orientale, come le “Lanterne verdi”: in molte case, sul confine tra Bielorussia e Polonia, gli abitanti lasciano accesa una luce verde per indicare ai migranti che lì potranno trovare un rifugio per la notte. Poi Gesù nasce per i tantissimi volontari di diverse organizzazioni sulla rotta balcanica. Nasce per i tantissimi samaritani in Libia, cittadini semplici che danno spontaneamente il loro aiuto. La nostra necessità di raccontare passa anche da queste storie, in cui si sente il bisogno di riconoscere l’altro come un qualcuno che, in una condizione drammatica, ha bisogno di una minestra, una coperta e una pacca sulla spalla. Un’interpretazione nuova del Natale, che ci fa vedere il mondo con uno sguardo diverso. Che ci fa vedere il mondo con una fede diversa».

Alessandro Venticinque

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