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Vivere la morte/2: intervista a Francesca Biolatto

Francesca Biolatto e Claudio Vicini, associazione “Fulvio Minetti”

«Ho conosciuto le cure palliative quando ero già un operatore socio-sanitario, lavoravo in casa di riposo, e sono venuta a sapere di un corso che parlava del fine vita. Mi sono iscritta. E alla fine del corso ci è stato detto che era stato realizzato per aprire l’hospice “Il Gelso”. È così che mi sono avvicinata per la prima volta alla morte». A parlare è Francesca Biolatto, presidente dell’associazione “Fulvio Minetti” e, sin dagli inizi, volontaria dell’hospice “Il Gelso” di Alessandria. Un luogo speciale in cui, dal 2007, sono accolte persone in fase avanzata di malattia che hanno bisogno di cure palliative, per essere sollevate dal dolore negli ultimi momenti di vita. Un luogo dove volti, storie ed esistenze si toccano. Un luogo dove si cerca di dare un senso alla vita e alla morte: un luogo di fede. Ce lo raccontano Francesca Biolatto e Claudio Vicini, uno dei volontari che svolgono il proprio servizio con la “Fulvio Minetti”.

Francesca, partiamo da te: quando hai conosciuto l’hospice?
«Sono entrata in hospice nel gennaio 2007: non c’erano ancora i pazienti, abbiamo solo sistemato le stanze, i primi ospiti sono arrivati dopo dieci giorni. Il passaggio successivo è stato entrare nell’associazione “Fulvio Minetti”, realtà che ha permesso l’apertura dell’hospice. Perché le cure palliative si fanno con il volontariato. “Il Gelso” è gestito dall’Asl, ma è affiancato da un’associazione che si occupa di raccogliere fondi e investe là dove l’Asl e lo Stato non possono arrivare. Per esempio, abbiamo acquistato arredamenti, televisioni, frigoriferi, auto per il servizio a domicilio, mascherine e guanti. E, all’inizio, anche dei medici. Oggi siamo noi a retribuire la psicologa, la dottoressa Roberta Bastita, che non solo va a casa dei pazienti, ma lavora all’ospedale, con gli operatori e dà una mano anche con i volontari, curando il corso di formazione che è partito da poco».

E la “Fulvio Minetti” quando nasce?
«Nasce nel 1993 da un gruppo di medici e infermieri che già negli Anni 90 andavano a domicilio a seguire i pazienti terminali. Nel ’93, poi, decidono di costituire l’associazione dopo aver seguito Fulvio Minetti, un ragazzo nato con delle disabilità e purtroppo colpito da un tumore. Hanno formato una squadra di medici, infermieri e qualche volontario per fare servizio solo a domicilio, gli hospice non c’erano ancora. Grazie alla legge Bindi (Legge 39 del 1999, ndr) si sono resi disponibili alcuni fondi europei: in Europa, infatti, alcuni hospice esistevano già dagli Anni 60. Così la dottoressa Gabriella D’Amico e Valeria Ghelleri, ex caposala dell’hospice oggi in pensione (due delle fondatrici della associazione, ndr), si sono messe all’opera: sono andate a parlare inizialmente con l’azienda ospedaliera e, insieme, hanno individuato la struttura attuale. L’associazione ha affiancato le operazioni, comprando materiale e formando un gruppo di volontari nuovi. Dopo i lavori, l’hospice è partito nel febbraio 2007: oggi sono15 anni di servizio».

Portato avanti da un gruppo importante.
«La dottoressa D’Amico adesso è in pensione, e al suo posto, come medico responsabile, c’è la dottoressa Mirella Palella. Poi, oltre alla psicologa, abbiamo in squadra il dottor Giovanni De Pascalis, che cura il servizio a domicilio. Infine, ci sono tutti i nostri volontari che ci danno un grande aiuto».

Vi “confrontate” con gli ultimi momenti di vita delle persone. Cosa cambia anche nel vostro modo di vivere la vita?
«Cambia, eccome. Io adesso sono in pensione, ma se dovessi tornare indietro lavorerei subito con i malati terminali. Perché la persona che sta per morire ti dà veramente tanto. La domanda che mi fanno più frequentemente è: “Ma come fa a lavorare con i morti?”. E io rispondo: “Io lavoro con i vivi! Se lavorassi con i morti aprirei un’azienda di pompe funebri”. Io lavoro con i vivi e loro danno tanto, perché ti raccontano cose che magari non hanno mai raccontato a nessuno. I più difficili da gestire sono i pazienti consapevoli: hanno ben in mente dove stanno andando, hanno già preparato il funerale, il vestito nell’armadio. A quel punto rimani senza parole, non sai cosa dire e ti domandi: “Ma se io fossi al suo posto farei la stessa cosa?”. Non so darmi una risposta…».

Lei cosa vede nei loro occhi?
«All’inizio vedo paura, paura e rabbia. E dopo vedo la serenità. Mi dicono: “Io la mia vita l’ho vissuta, fatemi dormire”. Tanti salutano per l’ultima volta parenti e amici, e poi partono per la sedazione. Ma anche da sedati i pazienti vengono trattati come se fossero vivi. I volontari li trattano come tali, e continuano a parlare con loro. Accompagniamo queste persone dall’inizio alla fine del loro percorso all’hospice, facendogli compagnia».

C’è anche un accompagnamento spirituale: con voi opera don Mario Cesario.
«Sì, qualcuno lo cerca e vuole parlare con lui. Don Mario è molto rispettoso della persona e comunica tanto sentimento. L’ho visto commuoversi diverse volte, soprattutto durante il sacramento dell’Unzione degli infermi, con persone di tutte le età. Perché, nonostante i tanti anni all’hospice, alla morte non ci si abitua, non diventa una routine. Le morti non sono tutte uguali. Ognuno è unico, e ogni morte è unica».

I parenti dei malati come vivono questo momento?
«Con il Covid è stato difficile, perché gli ingressi erano limitati e quindi non abbiamo potuto fare un vero e proprio accompagnamento. Prima della pandemia, invece, il parente veniva seguito tanto quanto il paziente. Perché sono proprio i familiari a fare domande quando il parente viene sedato: “E adesso cosa succede?” oppure: “Sono 24 ore che dorme, non mangia, bisognerebbe svegliarlo”. Allora noi spieghiamo quello che succederà, e li accompagniamo in quei momenti così delicati».

Passiamo la parola a Claudio Vicini, volontario dal 2017, che ha vissuto in prima persona gli ultimi momenti di un proprio caro all’interno dell’hospice. Claudio, come sei entrato in contatto con questa realtà?
«Ho conosciuto l’hospice nel 2016, quando mia moglie ha trascorso gli ultimi 42 giorni della sua esistenza terrena. Per tanti anni ho svolto servizio con il 118, quindi ero abituato a vivere determinate situazioni. Ma questa è stata un’esperienza totalmente nuova».

Cosa ricordi di quei momenti?
«Ricordo il giorno in cui abbiamo incontrato Francesca e la dottoressa D’Amico che ci hanno accompagnato in quella che è stata la camera di mia moglie per 42 giorni. E io ho vissuto questi 42 giorni sempre più sereno, perché ho capito che quella non era solo esclusivamente un’anticamera della morte, ma era un luogo dove ti facevano capire tante cose. Era come stare in una famiglia, con persone che ti capiscono. Stavo lì giorno e notte. Ogni tanto qualche amico mi portava a cena, e ricordo di avergli detto: “Non vedo l’ora di andare a casa”. E la mia casa in quei giorni era l’hospice».

Un luogo diverso, quindi.
«Ho visto la differenza sostanziale degli operatori dell’hospice rispetto a un operatore sanitario di qualunque altro ospedale. In più c’è l’aspetto religioso. C’è differenza se si ha la consapevolezza che la morte non è l’ultima parola, ma è un passaggio. Diverso è dire: “Qui finisce tutto”. Vivere la morte con l’aspirazione a una vita diversa indubbiamente ti aiuta a sopportare quei momenti drammatici. Sia per i pazienti, sia per i familiari, perché nella tristezza si può capire che il proprio caro se n’è andato, ma adesso è in un posto migliore. Detto questo, all’hospice si rispettano tutte le religioni: nessuno impone nulla, ma a tutti viene data libertà. Questo è il “credo” dei volontari: siamo sempre a disposizione, ma lasciamo che sia il paziente a guidarci. Quindi c’è il momento in cui capiamo che fa piacere parlare un po’ di più, e quello in cui basta uno sguardo o un sorriso».

Francesca, torniamo a te. Hai un aneddoto da raccontarci?
«Sì, una storia mi ha segnato particolarmente. Avevamo avuto all’hospice una ragazza giovane di circa 30 anni. Qualche anno prima aveva perso la madre per la stessa malattia. Questa ragazza è stata da noi per più di un mese, vicino a lei si alternavano il fratello, più giovane, il papà e gli zii. Il fratello si metteva vicino a lei ma non parlava mai, e noi cercavamo di rispettare il suo silenzio. Poi, quando questa giovane è mancata, lui si è alzato e si è buttato su di lei, piangendo disperato: “Eri l’unica sorella, eri tutto per me”. In quel momento, assistendo alla scena, ho pensato ai miei ragazzi… Io ho due figli, una femmina e un maschio, proprio come loro. In quel momento non sono riuscita più a distinguere la realtà dall’immaginazione. Mi sono messa a piangere, sono uscita di corsa e per un mese ho avuto difficoltà a superare quel momento. Ma devo dire che mi ha reso più forte e mi ha aiutato a capire che queste cose non accadono solo agli altri. Spesso pensiamo: “La morte a me non capiterà mai, succede sempre agli altri”. Invece no, non è così. Tocca anche a noi».

Veniamo alle novità. Su Voce abbiamo dato conto dell’inaugurazione di un salottino all’interno dell’hospice, intitolato a don Agostino Cesario.
«Certo, un bel momento per festeggiare anche i 15 anni dall’apertura. Se il Covid si farà da parte, i parenti potranno stare in quel luogo tutto il giorno, vicino ai loro cari. Non soltanto due ore, come avviene oggi. In più abbiamo anche “inaugurato” un’automobile che servirà per le cure dei pazienti assistiti a domicilio. A questo proposito vorrei fare una riflessione…».

Certo.
«Intanto ringrazio la Polizia municipale di Valenza, che ha autorizzato l’équipe che va a domicilio a parcheggiare nelle zone a pagamento e a utilizzare la Ztl. Ringrazio anche i vigili alessandrini perché ci permettono di passare nella Ztl quando abbiamo pazienti in quella zona. L’unico neo riguarda i parcheggi a pagamento del centro, che sono gestiti da Atac Mobilità: ho fatto richiesta, purtroppo non hanno recepito il nostro messaggio e quindi non ci hanno dato l’autorizzazione a lasciare le auto di servizio nei parcheggi a pagamento. Così capita spesso che i nostri operatori girino per trovare un posto, si mettano rapidamente in una zona a pagamento e si prendano la multa. Mi spiace molto che non sia passata la nostra richiesta, perché se c’è una chiamata fuori dal normale orario di visita vuol dire che il paziente si è aggravato e quindi ha un’urgente necessità. Tutto qui».

Francesca, vuoi dire ancora qualcosa?
«Viviamo in un mondo in cui dobbiamo andare ai mille all’ora… Pensiamo sempre che a morire siano gli altri, noi no. E, quando succede, le cure palliative possono dare un grosso aiuto e quella serenità per poter affrontare un passaggio così difficile. Tante persone arrivano convinte che le cure palliative siano una puntura. Il loro familiare viene ricoverato e ci dicono: “Quand’è che l’addormentate?”. E noi: “Guardi che non funziona così. Noi non ammazziamo nessuno. Ognuno ha il suo momento”. E, quando arriverà quel momento, noi dell’hospice possiamo solo accompagnare: con la parola, con una stretta di mano o una pacca sulla spalla, ma anche con il silenzio. Vorrei ringraziare tutti i cittadini per l’aiuto costante e la vicinanza all’hospice. Anche donando soltanto 1 euro, possiamo fare tante cose per le persone che aiutiamo in quel delicato momento della vita. Grazie veramente a tutti!».

La “Fulvio Minetti”

L’8 luglio 1993 per convinzione di un gruppo di quattro medici (Giulietta Alessio, Gian Maria Bianchi, Gabriella D’Amico e Paola Nota) e quattro infermieri (Vanessa Bassan, Gabriella Berta, Laura Carretta e Valeria Ghelleri) viene fondata l’associazione “Fulvio Minetti”. Questo gruppo inizia a operare gratuitamente presso il domicilio dei pazienti nelle ultime fasi della loro vita praticando le cure palliative. Nel 1998 l’associazione si trasforma in onlus e, a seguito di diversi finanziamenti e lavori, il 5 febbraio 2007 viene aperto l’hospice “Il Gelso” di Alessandria. Il primo paziente entra il 12 febbraio 2007. Nel 2008 nasce anche il servizio di cure palliative domiciliari che fa riferimento all’hospice. L’associazione, che opera all’interno dell’hospice grazie a una convenzione stipulata con l’Asl Al (che gestisce la struttura), dà supporto e sostegno pratico, relazionale e affettivo ai pazienti assistiti dai servizi di cure palliative e ai loro familiari; facilita l’attività delle équipe di cure palliative domiciliari e residenziali attraverso l’acquisto di beni e strumentazioni o il pagamento di professionisti a supporto degli operatori sanitari Asl Al che lavorano in hospice e nelle cure palliative domiciliari sul territorio di Alessandria e Valenza; promuove momenti formativi e ricerche nell’ambito delle cure palliative e della terapia del dolore; fornisce un servizio di sostegno psicologico per i familiari in lutto.

Alessandro Venticinque

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