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«Io morirò per la mia fede» Un eroe della Resistenza che anteponeva l’uomo all’ideologia

Intervista ad Aldo Gastaldi, nipote del partigiano “Bisagno”

Quella del partigiano Aldo Gastaldi, nome di battaglia “Bisagno” (Granarolo, 17 settembre 1921 – Desenzano del Garda, 21 maggio 1945), è una storia di fede. Semplice e vera.

Bisagno, comandante della divisione Cichero, la più grande operante nella “sesta zona” ligure, è stato uno dei maggiori esponenti del movimento di Resistenza italiano. Oggi, a portare avanti con convinzione e riconoscenza la memoria viva dello zio c’è il nipote – che porta il suo nome –  Aldo Gastaldi. Dal 2015 Aldo gira l’Italia con il film-documentario di Marco Gandolfo, intitolato “Bisagno”: il racconto, attraverso testimonianze e documenti inediti, della vita di un uomo grande.

Gastaldi, lei che cosa ha “ereditato” da suo zio?

Mio zio Bisagno è una figura che ha sempre pervaso la mia vita con un’aria di semplicità, spontaneità e fede. Tutto il lavoro che è sfociato nel documentario è stato possibile grazie al lavoro di mio padre, che aveva 13 anni quando morì il fratello, e ha vissuto tutta la vita cercando materiale documentale sul fratello. Tutta la sua esistenza è stata improntata guardando a questa figura che è stata un esempio per tutti. Qualcosa che è difficile da esprimere a parole… Una testimonianza molto forte, ma allo stesso tempo delicata. Quella di un uomo che ha deciso di seguire Cristo.

Come la fede poteva avere a che fare con la Resistenza?

La fede ha influito su tutte le decisioni di mio zio, su tutto il suo operato, anche dal punto di vista militare. La sua fede è nata in una famiglia semplice, in cui i genitori hanno avuto come scopo della vita quello di educare cristianamente i figli. Aldo era il primo di cinque, nacque il 17 settembre 1921 sulle alture di Genova, a Granarolo. Quando morì, mia nonna pronunciò questa frase: “Meglio saperlo morto che perso spiritualmente”. Solo la fede poteva dettare questo giudizio a una donna che si ritrovava con un figlio morto, altri quattro da crescere e un marito grande invalido di guerra. Questa è la fede che ha respirato Aldo. Lui aveva impostato tutto l’operato della divisione che comandava su un codice morale rigoroso, che poi era il suo esempio: il capo è il primo nelle azioni più pericolose, l’ultimo nel ricevere il cibo e il vestiario, a lui spetta il turno di guardia più faticoso; alla popolazione contadina si chiede, non si prende, e possibilmente si paga o si ricambia quel che si riceve; non si importunano le donne; non si bestemmia. Anche verso i nemici, Bisagno fu estremamente misericordioso. Evitò le fucilazioni, anche delle Brigate nere: “Io non sono d’accordo di fucilare un fascista solo perché è fascista” diceva. Non giudicava mai la persona, non mirava mai a cambiare gli altri, piuttosto cercava di cambiare se stesso. Era per i suoi compagni una figura affascinante, con un’autorevolezza straordinaria. Senza alcun proselitismo attirava a sé i suoi uomini, che avrebbero dato la vita per lui.

E la politica?

Quando la politica entrò dentro alla storia resistenziale per appropriarsene, “per prepararsi le poltrone di domani” (come disse il partigiano Attilio Mistura, “Bisturi”) lui si oppose: “Noi non abbiamo un partito, noi non lottiamo per avere un domani un cadreghino, vogliamo bene alle nostre case, vogliamo bene al nostro suolo e non vogliamo che questo sia calpestato dallo straniero, dobbiamo agire nella massima giustizia e liberi da prevenzioni”. In una lettera a Gino Campanella, così scrisse: “Io sono venuto a combattere il metodo fascista, e lo combatto in chiunque, sia esso bianco, nero, verde o color cenere… Continuerò a gridare ogniqualvolta si vogliano fare ingiustizie e griderò contro chiunque, anche se il mio grido dovesse causarmi disgrazia o altro”. Una sorta di profezia sulla sua fine… Non è un caso che a Campanella, che dopo la guerra divenne capo della polizia a Bologna, la lettera sia arrivata trent’anni dopo la Liberazione.

Bisagno ebbe dei nemici anche tra i partigiani?

Subì una persecuzione interna tra le fila dei partigiani, ma lui decise di andare avanti in ciò che credeva. Come hanno testimoniato la madre prima e il partigiano Aurelio Ferrando poi, Aldo, credendo di non essere sentito, in genovese disse: “Io morirò per la mia fede”. Mio zio ha vissuto un martirio, tra le fila partigiane, anche perché vedeva il comunismo come un inganno. Era un uomo libero, ed era scudo e protezione per i suoi uomini. Un aneddoto: il partigiano Elvezio Massai, detto “Santo”, raccontò che dopo tre giorni senza mangiare si trovarono in una casa di contadini all’ora di cena. I contadini offrirono loro quello che avevano. Aldo, capendo che quelle persone avrebbero rinunciato a mangiare, mise una mano sulla spalla di Santo, dicendo: “Noi abbiamo già mangiato”.

Perché far conoscere la vita di Bisagno?

Quando ho sentito le parole dell’arcivescovo di Genova, cardinal Angelo Bagnasco, che in un discorso ai giovani diceva: “Seguite quello che risponde alle vostre più profonde esigenze del cuore”, ho pensato subito a mio zio. Far conoscere la storia di Bisagno è un’esigenza del cuore: quella di mostrare ai giovani qualcosa di bello, in un mondo che di bello dà molto poco.

In che modo la fede dello zio è passata al nipote?

Sicuramente Aldo è stato una persona che ha brillato di una luce riflessa, e ha lasciato che questa luce lo avvolgesse, lo conquistasse e ne facesse una meraviglia. Aldo è sempre stato lontano dai riflettori, nel silenzio ha testimoniato Cristo. Il suo ruolo di comandante ha amplificato questo suo modo di vivere. La gente rimaneva colpita dalla sua purezza, dalla sua verginità. E questo ha pervaso la mia vita, mi ha cambiato tutto.

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