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Io sono il buon pastore

Lui porta, rifugio e nostra sicurezza

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Commento al Vangelo di Domenica 7 maggio 2017
IV Domenica di Pasqua

Il capitolo 10 del vangelo di Giovanni sviluppa in questa domenica (Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni) il tema di Cristo come Buon Pastore.

Nonostante la poeticità con cui si presenta questa immagine pastorale, le parole di Gesù sono anzitutto polemiche. Egli si rivolge ai farisei e contro di essi riprende le accuse che già i profeti avevano gettato contro i cattivi pastori, “che pascono se stessi” (Ez 34) mentre “fanno perire e disperdono il gregge” (Ger 23).

Bisogna riconoscere che il discorso di Gesù ha un tono abbastanza misterioso, tipico del linguaggio teologico di Giovanni. È come una sorta di messaggio cifrato: il recinto, le pecore, la porta, i ladri, il pastore… Di chi parla Gesù? Che cosa vuol dire? E quale interesse può avere per noi questo discorso?

Evidentemente queste immagini agricole erano assai più familiari ai contemporanei di Gesù che non a noi, anche dal punto di vista del linguaggio religioso. Nell’Antico Testamento, infatti, Dio è chiamato spesso “pastore” del “suo gregge” (il popolo dei suoi fedeli), e nel vangelo Gesù dice di se stesso: “Io sono il buon pastore”. Riprendendo così le immagini bibliche – dove “pecore” e “pastori” indicavano il popolo e le sue guide – Gesù afferma che lui solo è il vero pastore e lui solo è il punto di riferimento, la “porta delle pecore”.

In altre parole: Gesù afferma di essere il solo in grado di dare agli uomini la vera vita.

Questo modo di parlare di Gesù implica che noi, a nostra volta, siamo considerati il “gregge” di Dio, le “pecore” che ascoltano la voce di Gesù pastore e lo seguono.

Forse queste immagini oggi ci danno un po’ di fastidio: non ci piace sentirci paragonati a un “gregge di pecore”…

Forse non ci  sentirci chiamati “gregge”

Nella nostra cultura questa immagine suona più come un insulto che non come un titolo d’onore. “Pecore”: come dire gente senza carattere, senza iniziativa, capaci solo di andar dietro agli altri. “Gregge”: come dire massa anonima, dove scompaiono la personalità di ciascuno, e vengono meno il senso della responsabilità e della dignità del singolo individuo.

Colui che difende le sue pecore dai pericoli

Nel linguaggio della Bibbia, invece, l’immagine del pastore e del gregge ha un significato tutto positivo: il buon pastore è colui che guida il suo gregge per la strada giusta; è colui che mantiene unito il suo gregge perché nessuna pecora si perda; è colui che difende le sue pecore da pericoli e minacce. Un buon pastore conosce le sue pecore una per una, le chiama per nome e si preoccupa per la vita di ciascuna di esse.

Gli uomini, invece, quando diventano capi, guide o maestri di ogni genere, rischiano di pensare prima a se stessi e al proprio tornaconto, diventando “ladri e briganti” piuttosto che pastori a servizio della comunità, capaci di spendere la vita per tutti.

L’insegnamento che il Signore ci vuole dare è chiaro: la vita buona e bella, la salvezza degli uomini viene da lui, che a questo scopo il Padre, con un gesto d’amore infinito, ha mandato nel mondo.

È Cristo il nostro difensore ed essere credenti non significa affatto essere “un gregge di pecoroni”: non possiamo più, oggi, essere cristiani solo perché, combinazione, ci siamo trovati senza farlo apposta nel numero dei battezzati; né si può andare dietro a Cristo per caso, solo perché spinti dalla massa, portati dalla corrente delle tradizioni e delle usanze familiari.

Per avere la vita è necessario, invece, tornare al pastore e guardiano delle nostre anime, camminare con lui nel suo gregge, ascoltarlo e seguirlo. Occorre passare attraverso di lui che è la “porta”, attraverso cui le pecore possono entrare e uscire liberamente, trovare rifugio e sicurezza, ma anche correre verso i pascoli. È Gesù la porta della salvezza, che apre e non imprigiona, è lui la porta della libertà e della vita: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.

don Stefano Tessaglia

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