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Il Pride? Non è stata una carnevalata

Il 1° giugno una classica sfilata “gay pride” ha chiuso il mese di manifestazioni e incontri di “lotta contro tutte le discriminazioni” che hanno interessato Alessandria. È venuto il momento per alcune riflessioni a partire da una domanda: si è trattato semplicemente di una festa carnevalesca, lieta e spensierata, con la sospensione delle convenzioni sociali usuali, una specie di parentesi, in cui si può uscire dalle righe almeno una volta, come si diceva un tempo (semel in anno licet insanire)? Non era questa l’intenzione degli organizzatori e anche noi non intendiamo ridurre il pride a una carnevalata. Quando il primo carro del corteo è entrato in Piazzetta della Lega, dopo aver percorso tutto corso Roma, la drag queen speaker tra tante parole ha anche enunciato le ragioni che hanno motivato gli organizzatori: all’inizio indicando nell’obelisco al centro della piazzetta, centrale per l’Alessandria di oggi e della sua storia, un “evidente” simbolo fallico e alla fi ne sottolineando che eventi come questo “portano una contaminazione”, chiudendo con l’augurio che tutti possiamo diventare gay. Non solo quindi una festa piena di colori in una giornata di sole, che ha ravvivato la ‘grigia’ Alessandria; non solo un gesto di lotta alle diseguaglianze e alle discriminazioni e di rivendicazione della libertà di espressione delle proprie idee: il più compiuto significato del gesto è la metaforica (ma non tanto) presa di possesso della città, quasi l’inizio di una nuova Alessandria.

Prima che sui singoli aspetti delle iniziative – alcune fortemente discutibili, in primis quando sono stati coinvolti bambini – e sul persistere di violenze grossolane – in particolare nella comunicazione visiva pesantemente oltraggiosa di simboli religiosi – vale la pena riflettere su quanto è avvenuto che, non dimentichiamo, si è ripetuto in una quarantina di città italiane. Due prime considerazioni di natura molto diversa tra loro. Un’azione che, come quella del Pride, si fonda sull’urgenza di “decondizionare” da stereotipi, escludendo qualunque forma di confronto e avvalendosi di tutti gli strumenti ritenuti utili al raggiungimento del fine, sembra molto più un “ricondizionamento” a nuovi stereotipi, di genere e non. Siamo di fronte ad un aspetto di quella “colonizzazione ideologica” insistentemente denunciata da papa Francesco, di cui ci permettiamo di ricordare alcune frasi: «… anche oggi riappaiono nuove ideologie che, in maniera sottile, cercano di imporsi e di sradicare la nostra gente dalle sue più ricche tradizioni culturali e religiose. Colonizzazioni ideologiche che disprezzano il valore della persona, della vita, del matrimonio e della famiglia (cfr Esort. Ap. Amoris Laetitia, 40); e nuocciono, con proposte alienanti, ugualmente atee come nel passato, in modo particolare ai nostri giovani e ai nostri bambini lasciandoli privi di radici da cui crescere (cfr. Esort. Ap. Christus vivit, 78); e allora tutto diventa irrilevante se non serve ai propri interessi immediati, e induce le persone ad approfittare delle altre e a trattarle come meri oggetti (cfr. Enc. Laudato si’, 123-124)». (…)«Vorrei incoraggiarvi…a continuare a lottare, come questi beati, contro queste nuove ideologie che sorgono. Tocca a noi adesso lottare, come è toccato a loro lottare in quei tempi» (Omelia del 2 giugno 2019 nella Messa per la beatificazione di 7 vescovi martiri, a Blaj, Romania).

Una domanda in conclusione riguarda gli aspetti materiali dell’iniziativa alessandrina (e non solo). La preparazione e la attuazione del progetto pride hanno avuto un costo che non può essere giustificato solo dal volontariato dei militanti. Il coinvolgimento nell’organizzazione di associazioni che ricevono importanti finanziamenti pubblici è una ragione in più per chiedere agli organizzatori del pride di rendere pubbliche l’origine delle risorse che hanno permesso la realizzazione delle iniziative che si sono concluse con il pride del 1° giugno.

Comitato “Difendiamo i nostri figli” di Alessandria e Valenza

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