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A Medjugorje ho visto conversioni vere

In vista del pellegrinaggio diocesano (8-15 agosto)

«Sarà un pellegrinaggio vissuto alla giornata, non pianificato: sai quando si arriva e quando si va via, ma nel mezzo ci metti quello che viene. Un po’ come la vita cristiana…»

Nel maggio del 2019 papa Francesco ha deciso di autorizzare i pellegrinaggi a Medjugorje, che dunque possono essere ufficialmente organizzati dalle diocesi e dalle parrocchie e non avverranno più soltanto in forma “privata”, come accaduto fino a quel momento. Sulla scia di questa decisione, la nostra diocesi ha organizzato un pellegrinaggio a Medjugorje, dall’8 al 15 agosto 2020. Abbiamo chiesto al nostro vescovo, monsignor Guido Gallese, di dirci che cosa si aspetta da questo evento.

Eccellenza, lei ha un rapporto “vocazionale” con Medjugorje. Ce lo racconta?
«A Medjugorje ci sono andato per la prima volta nel 1982, quando avevo 20 anni, e ho trovato un posto che mi ha interrogato. Io ero un matematico di quelli “feroci”, con molta fiducia nella scienza… Non rimasi colpito dalle apparizioni, ma dalle testimonianze. Lì ho visto persone che pregavano con convinzione, avevo quasi la sensazione che Dio esistesse (ride). Questi “omoni”, con il Rosario in mano, il venerdì digiunavano a pane e acqua pur lavorando nei campi. E la gente a Messa rispondeva con una voce sola, come un tuono!».

Impressionante.
«Capii che non era tutto “studiato”, ma si trattava di una convinzione e di una conversione. Quello che mi aveva davvero colpito, e l’ho scoperto solo da vescovo, era la comunità. Sono tornato a casa e mi sono detto: “Ma allora il Vangelo è vero”. Non che avessi dei dubbi prima, ma a Medjugorje il Vangelo era vissuto con semplicità, quotidianità e ordinarietà. Senza fronzoli, attività o cose da fare. Anche la carità di quelle persone mi colpì molto: l’ospitalità verso i pellegrini, l’attenzione all’altro… In particolare ricordo un episodio: mia mamma era in Chiesa durante una celebrazione, e al momento della Consacrazione una donna del luogo le lanciò un asciugamano per terra per farla inginocchiare».

Che cosa è successo, dopo quella prima volta?
«Da lì, ogni estate iniziarono le “contrattazioni” con i miei genitori su dove andare in ferie. Io spingevo per tornare a Medjugorje; cercavo di passare più tempo possibile in preghiera perché sentivo quello straordinario contatto con Dio che non trovavo altrove».

Perché la Chiesa è così prudente, allora?
«Dire che un’apparizione è vera, e attestarlo con dei criteri razionali, è complicato, anche se si vede l’impronta di Dio. Quello che io sento e percepisco, qualcun altro magari non lo percepisce. Come si fa a stabilire chi ha ragione e chi no? Ci vogliono dei criteri che abbiano un minimo di oggettività. Ma sono convinto che i frutti col tempo si vedranno».

In questo senso, già il fatto che si possa fare un pellegrinaggio come diocesi è un “frutto”.
«Già, e io non ho perso l’occasione di organizzarlo appena possibile: sono riconoscente per le grazie che Medjugorje ha fatto a me e a tanta gente che ho seguito. Per 18 anni ci sono andato da solo, senza portare nessuno, perché ero molto fedele alle indicazioni della Chiesa. Quando poi ho trovato qualcuno che ci andava, allora ho partecipato per accompagnare il pellegrinaggio. E ho visto dei cambiamenti straordinari nelle persone: questo luogo mi è rimasto nel cuore e mi ha mostrato dei frutti pastorali bellissimi che raramente troviamo negli adulti. Questa è la cosa straordinaria: adulti che cambiano vita! Nel mio ministero, prima presbiterale e poi episcopale, queste conversioni le ho viste accadere con più frequenza proprio a Medjugorje».

Ma è vero che il pellegrinaggio della nostra diocesi non ha un programma predefinito?
«Medjugorje va vissuto alla giornata, non si pianifica: sai quando si arriva e quando si va via, ma nel mezzo ci metti quello che viene. Un po’ come la vita cristiana… Ci sono i ragazzi della Comunità Cenacolo che faranno la loro testimonianza, certamente andremo sul Monte della Croce a fare la Via Crucis e sul Podbrdo a pregare; poi parteciperemo all’Adorazione eucaristica, che è uno splendore…».

Lei che rapporto ha con i veggenti?
«Conosco bene Marija Pavlovic ma, essendo molto ligio, quando i padri francescani chiesero di non andare a disturbare i veggenti non sono più andato a trovarli. E li avevo conosciuti tutti e sei, il 15 agosto 1982… Però so che altre persone sono molto invadenti. La mamma di Marija diceva: “La nostra casa è come una stazione ferroviaria” (sorride). E Marija mi ha raccontato che una mattina si è svegliata e si è ritrovata tre pellegrini italiani in camera sua che la guardavano mentre dormiva. Cose da italiani, insomma!».

Quando vede i veggenti che all’unisono si inginocchiano, cosa pensa?
«Vengo preso dai dubbi (sorride). Quelle cose lì da sole non bastano, anche se l’aspetto più interessante è il dato delle analisi scientifiche eseguite proprio sui veggenti. È emerso che quando vivono il fenomeno delle apparizioni non si trovano in uno stato di allucinazione, di ipnosi o di autoconvincimento, ma in una “situazione” che la scienza non riesce a definire: può dire che cosa non è, ma non che cosa è! Marija, scherzando, dice: “Io ho la certificazione che sono una persona normale, e tu ce l’hai?” (sorride). Sulle apparizioni la Chiesa non si è ancora pronunciata, ma noi possiamo soffermarci su altre cose: ho ascoltato le confessioni di gente che ha cambiato vita, ed è stato impressionante. Il ministero di confessore a Medjugorje è straordinario!».

La riscoperta del sacramento della Confessione è un segno grande. Qui da noi non si confessa più nessuno, ormai…
«Questo è un momento in cui non soltanto il sacramento della Riconciliazione, ma anche tutti gli altri sacramenti sono in crisi: forse perché veniamo dal Concilio Vaticano II, che ha cambiato molte cose della liturgia, e siamo rimasti presi più dalle forme di essa che dal suo contenuto vitale. Dobbiamo tornare al cuore della riforma conciliare e renderci conto che essa è veramente la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana».

Andrea Antonuccio

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