L’assemblea generale straordinaria della Cei ha dato il via libera al nuovo messale. Cambia la preghiera del “Padre Nostro”: la dizione «non ci indurre in tentazione» viene sostituita da «non abbandonarci alla tentazione». Cambia anche, nel «Gloria» recitato all’inizio della Messa domenicale, l’espressione «pace in terra agli uomini di buona volontà». Sarà sostituita da «pace in terra agli uomini, amati dal Signore».
Eccellenza, all’assemblea lei c’era: che clima ha respirato?
«Abbiamo cercato di riflettere approfonditamente sulla liturgia, sul suo senso e sul suo valore. Perché a più di 50 anni dal Concilio che ha attuato la riforma liturgica è veramente giunto il momento di metterla in pratica. Questo non deve stupire: tra noi “addetti ai lavori” si dice che prima che si cominci a mettere in pratica un concilio solitamente passano almeno 50 anni. Abbiamo cercato di fare i primi passi in questa direzione».
Su che cosa vi siete focalizzati?
«Ci siamo concentrati innanzitutto sulla celebrazione domenicale. Nelle nostre comunità difficilmente si percepisce che la celebrazione eucaristica è la fonte da cui promana tutta l’attività della comunità, e questo è un punto su cui dobbiamo giungere a un risultato concreto, fattivo. Credo che sia un’esperienza rilevata anche a livello della nostra assemblea diocesana: la fatica che nelle nostre comunità a volte si percepisce nel portare avanti il servizio risiede anche nella scarsa centralità delle celebrazioni eucaristiche».
Perché tutta questa risonanza mediatica su una frase del Padre Nostro?
«Per me non ha una rilevanza altrettanto forte quanto i fondamenti della liturgia. Che Dio è un Padre, che è misericordioso, lo abbiamo approfondito molto anche durante l’anno della Misericordia, e certamente una traduzione migliore può aiutare una comprensione che tuttavia si può fare anche attraverso la catechesi. Rimane il fatto che anche quando reciteremo il Padre Nostro in questa formula differente, continuerà a esserci gente che lo dirà nella vecchia maniera; o altri che si relazioneranno a Dio come a un padrone più che a un padre».
Quindi non cambia nulla?
«No, è un passo avanti verso la comprensione della espressione “esterna” di un Mistero, che comunque chiede un approfondimento teologico e orante della comunità».
In che cosa consistono questi “passi”, dopo 50 anni?
«I primi passi sono quelli di ritornare a pensare alla liturgia come luogo di partecipazione e di vita della comunità, non come ambito di un bisogno intimistico di religiosità».
Può spiegarci meglio qual è la direzione?
«La direzione è quella di una migliore comprensione della liturgia, non come momento squisitamente religioso, ma come crogiolo nel quale forgiamo la nostra settimana di attività nel mondo come cristiani. Come persone, cioè, che hanno ascoltato la Parola di Gesù, hanno partecipato al sacrificio eucaristico e vogliono rendere sacre, da “sacrum facere”, le azioni che svolgono durante la settimana e che rischierebbero invece di rimanere nell’orizzonte profano».
Non si tratta dunque di un cambiamento di formule da recitare…
«Ma no! Se noi pensiamo che il cambio della liturgia sia questo, non cambierà assolutamente nulla. In gioco c’è qualcosa di molto più profondo e importante, che è la vita stessa della Chiesa e del cristiano nella sua quotidianità. Di certo, non quelle poche parole che diciamo la domenica nella Messa».
Andrea Antonuccio