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Intervista a don Silvano Sirboni – Settimana santa, cuore di tutta la liturgia

«La liturgia è vita che forma, non un’idea da apprendere» ci spiega don Silvano Sirboni (nel tondo), parroco ai Santi Apostoli di Alessandria, liturgista e teologo. «La liturgia annuncia celebrando. E guardi, non è una novità conciliare. Già sant’Agostino diceva la stessa cosa: “Accedit verbum ad elementum et fit sacramentum, tamquam visibile verbum”. Il rito sacramentale è una parola che si rende visibile».

Don Silvano, come ci “parla” la liturgia?
«La liturgia parla attraverso i suoi riti, per cui un rito non vale l’altro. Il modo di celebrare non è innocuo, ma fa parte del messaggio. In questo caso la forma diventa sostanza: è l’arte del celebrare, di cui si parla molto, ma che spesso viene confusa con l’arte di “fare cerimonie”».

Può approfondire questo punto?
«L’enfasi cerimoniale, l’ostentazione, non è a servizio del contenuto che vuole proporre, anzi… può prendere il sopravvento sul contenuto e sul significato del rito, cioè su ciò che vuole comunicare. Le apparenze prevalgono, lasciando vuoto il cuore. Sono gratificazioni di carattere semplicemente emotivo».

E in Settimana santa?
«La Settimana santa è il cuore di tutta la liturgia, perché dalla Settimana santa hanno origine tutti gli altri riti, e in modo particolare tutti i sacramenti. Non a caso la benedizione degli oli ha luogo in prossimità della Pasqua, perché celebra il sacerdozio battesimale di tutti i cristiani. E all’interno di questo, ovviamente, il sacerdozio ministeriale, che è comunque a servizio dei fedeli».

Parliamo del Triduo, allora.
«Il Triduo pasquale, se riprendiamo il detto di sant’Agostino citato, è il cuore di tutto il Vangelo, ne celebra il nucleo centrale: non i miracoli, ma la vita donata per amore. E non per niente il Vangelo proclamato il Giovedì santo è costituito dalla lavanda dei piedi. Il comando di Gesù, “Fate questo”, che i sinottici riportano in riferimento ai gesti sul pane e il vino, nel Vangelo di Giovanni, sebbene con valore diverso, è riferito alla lavanda dei piedi». Difatti, San Leone Magno afferma che “la nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo, a farci rivestire in tutto, nel corpo e nello spirito, di colui nel quale siamo morti, siamo stati sepolti e siamo risuscitati” (Uff. lett. mercoledì II settimana di Pasqua). La comunione non è un fine, ma un mezzo per avere la forza di farci servi gli uni degli altri a immagine di Gesù. Questo è il senso dell’eucaristia, di cui si celebra l’istituzione nell’Ultima cena. La comunione dunque non è una faccenda privata, ma comunitaria».

Ci spieghi meglio…
«Non per niente la riforma liturgica ha recuperato la processione verso l’altare, che esprime la comunione non solo con Cristo, ma con i fedeli. Quindi anche la comunione dei gesti e degli atteggiamenti è importante, e non è secondo il gusto privato. Non ci si può comportare secondo i propri gusti devozionali o devozionistici».

Parliamo del Venerdì santo.
«Attraverso la comunione con il pane consacrato il giorno prima, il Venerdì santo manifesta visibilmente come la comunione di questo giorno sia strettamente legata alla celebrazione del giorno prima. C’è uno stretto legame tra il dono della croce e la nostra comunione. La cena e il calvario, il convito e il sacrificio, sono le due facce della stessa realtà».

E la Veglia pasquale?
«La Veglia pasquale, che non fa parte del Sabato Santo ma è già la Pasqua di risurrezione, si è strutturata nel tempo in funzione di quel battesimo che fa del cristiano un salvato, nella misura in cui mette la propria vita a servizio del Vangelo attraverso il servizio della carità. Il messaggio globale di tutta la Pasqua è quello che Gesù ha riassunto in una frase che è la chiave interpretativa di tutta la nostra vita: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà” (Lc 9,24)».

Don Silvano, lei che cosa “porta” in questa Pasqua davanti al Signore?
«La prima preghiera che faccio ogni mattina è composta da una sola parola: grazie. Un grazie per la chiamata del Signore, che mi ha dato la possibilità di servire il Vangelo come presbitero. Mi accorgo però che nonostante la mia volontà avrei potuto fare molto di più, e quindi mi affido alla misericordia infinita del Padreterno. E poi sono grato di vivere questo bellissimo momento della Chiesa, innescato dal Concilio Vaticano II; un cambiamento d’epoca, come lo ha definito papa Francesco. Questo mi ha dato la gioia di vivere con entusiasmo il mio presbiterato, anche se ho l’impressione di non aver corrisposto a sufficienza a questa Grazia».

Andrea Antonuccio

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