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Alessandria e quel rapporto personale con la Salve

Speciale Madonna della Salve/6

Marco, è iniziata una campagna donatori della Croce Rossa Italiana. Ce la può raccontare?

«In emergenza molte volte ci rendiamo conto che c’è qualcosa di così utile che non può essere comprato e che non può essere prodotto: il sangue. Questo può solo essere donato tramite un atto d’amore, forse il più grande che posso fare a una persona. Per incrementare questa raccolta, presso il centro trasfusionale degli ospedali abbiamo deciso di lanciare una campagna di raccolta sangue su tutta la provincia, andando a prenderlo sul posto. Ci siamo resi conto che molte volte donare il sangue in ospedale, in tempi di pandemia, poteva essere difficile. Così ci siamo organizzati con due “autoemoteche” che girano i comuni della provincia, facendo in modo di toccare tutti i paesi, andando almeno due volte all’anno in ogni punto. Con questa strategia, totalizzeremo 50 punti prelievo, così da poter incrementare la raccolta del sangue. Ci siamo resi conto che in questo modo possiamo avere dei donatori in più e a loro possiamo dire: “Venite in piazza, vi aspettiamo”. Il tutto viene coordinato dal mio collega, il dottor Canonero, presidente della Croce Rossa di Cassine, che è il responsabile regionale. I due mezzi sono nuovissimi, idonei a questo servizio; le infermiere volontarie, le nostre “crocerossine”, sono quelle che fanno materialmente il prelievo e i medici volontari assistono a tutta l’operazione».

Come posso partecipare, aspetto che arriviate o posso telefonarvi?

«Si può telefonare in Croce Rossa e chiedere il sabato e la domenica in quale paese è programmato questo servizio. Di volta in volta, ogni settimana, ogni weekend vengono raggiunti uno o due paesi della nostra provincia. Alessandria è interessata da questa operazione: l’abbiamo fatta già a marzo e ritorneremo a giugno».

L’8 maggio è la festa della nostra Patrona, ma è anche la giornata mondiale della Croce Rossa.

«Sì, l’8 maggio ricordiamo la nascita del nostro fondatore Henri Dunant. La persona che per prima, di fronte ai massacri della guerra, in particolare quella Risorgimentale a Solferino, visto l’abbandono dei soldati feriti, purtroppo destinati a morire, ha avuto l’idea di realizzare un corpo, prima legato ai militari e poi civili, che potesse soccorrere i feriti in guerra. Da lì in poi è partito il soccorso alla popolazione, perché naturalmente non si poteva pensare solo ai militari. Da quel momento l’8 maggio per noi è diventata una festa ufficiale. In tempi non di crisi, ci saremmo limitati ad andare in piazza e reclamizzarlo. Oggi viviamo un periodo molto più complesso: dobbiamo agire ancora in un altro modo».

A proposito di periodo difficile: Croce Rossa e guerra in Ucraina, che rapporto c’è?

«La Croce Rossa dal primo giorno, attraverso i contatti di Croce Rossa Internazionale, ha attivato i propri canali per soccorrere la popolazione ucraina. Di fatto sono cinque tir per volta che partono dai nostri centri di Avezzano e Palmanova e raggiungono, a secondo delle difficoltà del territorio e delle strade, la Romania o la Polonia. Per arrivare dalla Romania al confine c’è un ponte che viene spesso bombardato ed è un po’ più complesso, ma adesso si è formato un hub in grado di ricevere 20 tir per volta e di stoccare il materiale. Si tratta essenzialmente di farmaci, ma anche cibo, vestiario, attrezzature chirurgiche e tutto quello che può servire. Mentre in Polonia si riesce a raggiungere Leopoli (anche se con un po’ di rischio) dove il materiale sanitario viene spostato sulle ambulanze che raggiungono tutti i centri. In più sono state donate anche alcune nuove ambulanze dalla Croce Rossa in Italia alla Croce Rossa Ucraina, per sostituire quelle che purtroppo per una serie di motivi sono andate distrutte. Noi partecipiamo anche con delle raccolte fondi a questo progetto, magari per dotare le ambulanze di quella attrezzatura di emergenza necessaria per affrontare le difficoltà e le fasi critiche».

Noi come possiamo aiutarvi?

«Ci sono due modi. Il primo è aderire alla campagna nazionale di donazione: c’è un numero unico, cercando sul sito di Croce Rossa Italiana. Oppure rivolgendosi anche alla nostra sede che fa da riferimento in zona e poi fa arrivare i fondi dove servono. Faccio anche un altro ragionamento: in questa provincia abbiamo già ricevuto mille ucraini, insieme alla Caritas che ha fatto un lavoro eccezionale e che li assiste. Queste persone vivono mantenute, sino a questo momento, dallo stipendio della badante che li ha accolti qua. Perché sono persone che hanno raggiunto Alessandria conoscendo una mamma o una nonna che non è un petroliere, un notaio o un avvocato, ma di solito una badante, che oggi mantengono questi rifugiati con orgoglio e col proprio stipendio. E quindi riteniamo che sia giusto dare loro una mano, fornendo almeno il “pacco destinatario”, in attesa che il governo stanzi i fondi necessari. Queste persone hanno un orgoglio particolare, non chiedono nulla, ma noi lo sappiamo che hanno bisogno: dai pannolini, agli assorbenti fino ad arrivare al cibo. Queste cose Caritas le fa e Croce Rossa le fa, come tante altre associazioni. È un modo per utilizzare i fondi sul territorio per quelli che ne hanno bisogno qui: non dobbiamo dimenticare che anche questo è un modo per aiutare. In più sono stati portati in Italia bambini e adulti che Croce Rossa Internazionale ha valutato non poter gestire in Polonia o in Ucraina, casi anche gravi. Un totale di 36 ambulanze in colonna hanno raggiunto Leopoli, hanno caricato queste persone e le hanno portate in Italia. Abbiamo raccolto anche a Torino, e in altri ospedali, 40-50 persone che stanno ricevendo assistenza specifica. Fa parte del nostro lavoro, anche se questa emergenza è diversa, è alle porte dell’Europa. Di momenti di crisi a me è capitato di gestirne alcuni: ho prestato soccorso durante la guerra Jugoslavia e ne ho viste, di cose non belle. Questa però è terrificante, perché sembra di assistere a un massacro che non ha fine, dov’è la parola “odio” sta diventando la regola. Dove il rispetto tra le parti, ammesso che ci possa essere cavallerescamente tra militari, non c’è più. Quindi assistere al fatto che la gente viene uccisa a bersaglio, solo perché passa con la macchina, o schiacciata dai carri armati o colpita dai cecchini… è spaventoso. Una crudeltà che non avremmo mai immaginato, in una società civile, alle porte dell’Europa. Io sono stato anche in Russia, ho visitato Ryazan e l’accademia dei paracadutisti. Ho conosciuto tante persone, non mi capacito come ufficiali e un esercito che ha valori, e che ha fatto guerre anche giuste nei confronti del nazismo, possano lasciarsi andare e tollerare questi massacri».

Qual è il rapporto di Marco Bologna con la Madonna della Salve?

«Il mio rapporto con la Madonna della Salve è particolarissimo. Lo dividerei in tre momenti: da bambino, da ragazzo e da adulto. Da bambino mi portava mia madre, partivo dal paese e assistevo a questa cerimonia, portandomi dentro le immagini che può cogliere un bambino. Il Simulacro pieno di fiori (enorme per me allora) e un corteo di tantissima gente: io abito a Piovera, un paese di 800 abitanti, e le processioni avevano numeri nettamente inferiori. Mi colpivano i Carabinieri in alta uniforme, col pennacchio, i Vigili con l’elmo, il gonfalone del Comune, tutta la coreografia. Mia mamma, donna di fede, mi aveva insegnato a cantare l’Inno che so ovviamente ancora. Poi il rapporto è mutato: da ragazzo frequentavo il Collegio Santa Chiara e durante la processione gli studenti avevano il privilegio di sfilare vicino al vescovo e alla Salve. Era un punto d’onore per il nostro rettore, monsignor Cuttica, questa possibilità di far sfilare alcuni dei ragazzi, forse più meritevoli: per questo facevamo a gara. E lì, mi colpiva una certa particolarità: i miei sacerdoti, che conoscevo fino a quel giorno prima nella veste di insegnanti e che giocavano con noi a pallone, (ricordo don Quinto Moccagatta che era imbattibile a calcio) sembravano quasi trasfigurati, non sembravano neanche più loro. Lo stesso vescovo, monsignor Gagnor, domenicano che vestiva di bianco. La cosa mi colpiva: questi sacerdoti che avevo sotto gli occhi tutti i giorni di colpo cambiavano volto, vivevano la processione in un modo particolare e intenso. E poi mi è rimasto nel cuore lo sguardo della gente quando passava la Madonna: una cosa impossibile da dimenticare. Da adulto ho imparato quanto Alessandria, che è una città che possiamo definire fredda, possa avere un rapporto così personale con la Salve. L’ho visto dopo l’alluvione, con monsignor Charrier, e l’ho visto nella pandemia quando il vescovo Gallese, l’anno scorso, ha deciso di tenere in “basso” la nostra Patrona un mese in più. Eravamo in piena pandemia, avevamo i morti, i vaccini erano all’inizio. Tante volte uscivo dalla Croce Rossa e dicevo: “Chissà se ce la faremo”. Allora a me capitava di venire in Cattedrale, raccogliermi in preghiera e vedevo tanta gente, silenziosamente in preghiera come me. In sostanza, tutte le volte che sento l’Inno della Salve, mi commuovo (si commuove)».

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