Sabato 30 novembre la Diocesi di Alessandria ha dato il via all’Anno pastorale con un evento “nuovo”, che si è svolto al Teatro San Francesco alle 21. Il titolo dell’incontro, “La gioia di essere Chiesa – A teatro”, ha ripreso quello della Lettera pastorale del nostro Vescovo, monsignor Guido Gallese, che ha dialogato con due testimoni, il giornalista e scrittore Paolo Brosio e la dottoressa Chiara Perrone, medico geriatra. Entrambi hanno raccontato alcuni episodi chiave della loro vita paragonando le loro vicende a quelle di Giàiro e dell’Emorroissa, due personaggi del Vangelo che incontrano Gesù in un momento drammatico dell’esistenza.
Di seguito riportiamo un estratto degli interventi: potete rivedere la serata integrale QUI
monsignor Guido Gallese: Dio continua ad agire: sta a noi rendercene conto
Il Vangelo non è un resoconto storico di qualcosa che è avvenuto, ma è scritto perché avvenga di nuovo. Dio prosegue nel fare miracoli: siamo noi che non stiamo continuando a credere. Il Signore sta continuando a compiere le sue guarigioni e i suoi segni, a parlare, a donarci la sua grazia, a risuscitare, a ridare la vista, a farci muovere: siamo noi che rimaniamo paralizzati.
Lui continua ad agire, sta a noi compiere questo atto di fiducia interiore, di disponibilità: è nostro compito guardare le cose con occhi nuovi, gli occhi del risorto, che è Cristo, ma che sono anche io. Io devo imparare a risorgere nella vita: la risurrezione non sarà soltanto alla fine dei tempi, ma parteciperanno alla risurrezione coloro che sanno risorgere adesso. E risorgere adesso chiede di morire. Morire non è un atto fisico, ma significa imparare a guardare con occhi nuovi le nostre morti: non come qualcosa di disperante, ma come un passaggio, cioè una Pasqua.
Pasqua significa passaggio: è Dio che passa nella tua vita e ti fa fare un’esperienza per cui anche ciò che per te è una morte, diventa una vita nuova, fino al momento in cui si realizzerà anche fisicamente il passaggio dalla vita terrena ad una vita nuova.
Il Vangelo si ripete e noi siamo chiamati a viverlo con un atteggiamento di fondo che non è quello del giovane ricco, che si compiace di essere sempre stato “bravo” e “osservante”, ma quello di chi crede che Dio c’è e sta operando.
Paolo Brosio – Ho provato di tutto, sono arrivato a Dio per esclusione
«E adesso a Medjugorje voglio aprire un ospedale»
L’emorroissa c’entra con la mia vita: mi sono sentito come lei quando mi è crollato il mondo addosso. Io già conducevo una vita molto impegnativa, ma quando è morto mio padre subito dopo mi è successa un’altra disgrazia. Avevo aperto un locale assieme a Flavio Briatore e Marcello Lippi, il Twiga. Ero socio anche di un altro locale, il Billionaire, quindi praticamente non dormivo né di giorno né di notte, perché ero uscito dai telegiornali ma lavoravo sempre tantissime ore in televisione. Questa vita mi aveva portato un po’ fuori dalla realtà, era come se volassi per aria. Mia madre pregava incessantemente per me tutti i giorni: diceva tre rosari al giorno. Io le chiedevo come mai ci fosse la necessità di pregare così tanto e lei mi rispondeva: «Perché ne hai bisogno: ti devo riportare in chiesa, perché sennò mi vai fuori di testa».
Fuggire dal dolore attraverso i falsi idoli
E infatti sono andato fuori di testa. Dopo la morte di mio padre, al Twiga c’è stato un incendio doloso: io ero il socio che stava lì il weekend (perché durante la settimana lavoravo con Carlo Conti a Domenica In) e quell’incidente ci ha proprio destabilizzati: avevamo 120 dipendenti e siamo dovuti stare fermi in attesa dei lavori di ricostruzione, proprio all’inizio della stagione. Nel frattempo mi risposo, per la seconda volta. Il primo matrimonio era stato a Lerici. Alla Rotonda di Lerici, un locale bellissimo, mi ero innamorato di una ragazza e ho deciso di sposarla. Per mia mamma è stato un dramma: questa donna non era credente, il padre era ateo e votava comunista. Nonostante tutto riesco comunque a sposarmi in chiesa, mia madre passa da tre a sei rosari al giorno. Dato che la mia ex moglie era atea, il matrimonio non poteva essere valido: infatti dopo sei anni ottengo l’annullamento.
Non pago di aver fatto un disastro con questa ragazza, ne sposo un’altra: una modella cubana, non credente neppure lei. Mia madre era passata da sei a nove rosari al giorno (la mia casa era diventata un santuario).
Io nel frattempo continuo a fare le mie follie ma questa volta la mia compagna mi rende “pan per focaccia” e sparisce. Per la prima volta ero io che soffrivo: il mio cuore è come se fosse stato trafitto. Sono andato ancora più fuori di testa, perché come l’emorroissa cercava di tamponare le perdite pagando questi medici o pseudomedici, anche io mi rifugiavo nei falsi idoli, mi cacciavo in situazioni dove cercavo di fuggire da questo dolore per non pensare più. Durante il giorno lavoravo e facevo sport e la sera mi devastavo. Non trovavo niente che mi aiutasse a superare questa crisi e mia mamma lo capiva: per quello continuava a pregare per me. Finché poi è successo che dopo una bruttissima serata a Torino ho trovato Gesù, proprio come è accaduto all’emorroissa. Mi trovavo a Torino: dopo una serata da dimenticare, verso le cinque del mattino ho come una percezione audio, sento una voce soave che mi parlava e che io non avevo mai udito prima.
A quel punto ho mandato tutti via, mi sono fatto una doccia gelata e sono andato diritto alla reception dell’hotel dove alloggiavo, quasi come se ci fosse lì un padre spirituale pronto ad aspettarmi. Ho chiesto quale fosse il santuario più potente di Torino e mi è stato indicato quello della Madonna della Consolata: mi ci sono diretto al volo in taxi. Arrivo lì davanti e trovo ad aspettarmi don Ferruccio, un confessore pazzesco (quando è morto mi si è spezzato il cuore) che doveva arrivare alle otto e mezza. Io mi sono presentato lì davanti alle sette e lui era già arrivato, la chiesa era aperta e lui mi ha accolto con queste parole: «Sono qui perché so che dovevo aspettare qualcuno». Gli ho detto che ero io, anche se non ero sicuro di esserlo, e mi sono confessato per ore, tirando fuori tutto quello che ho fatto: è stata una liberazione. A un certo punto questo sacerdote mi chiede come sta mia mamma. Io un po’stupito gli domando il perché di questa sua domanda e lui mi risponde: «Io sono venuto qui perché sapevo di te: le preghiere di tua mamma ti hanno salvato la vita e tu adesso andrai dove lei ti dice di andare».
Il viaggio verso la conversione
Io portavo sempre con me il libro che mi aveva regalato mia madre, quello dei messaggi della Madonna ai veggenti di Medjugorje: era la mia coperta di Linus, mi ricordava mia mamma, che adesso è volata in cielo. Chi di voi ha una mamma in casa, per favore la tenga in palmo di mano (si commuove).Quindi ho seguito il consiglio di don Ferruccio e di mia mamma: mi sono messo in cammino verso Medjugorje. Ho scelto una data, 2 febbraio. Io non sapevo cos’era il 2 febbraio, l’ho capito dopo: “Luce per tutte le genti” (la Chiesa il 2 febbraio celebra la Presentazione di Gesù al tempio, ndr), non solo per il popolo eletto, ma luce per tutte le genti, cioè anche per i pagani. Io ero un pagano, che andava là senza sapere niente. Sono arrivato il 2 sera, a Medjugorje. Ad attendermi c’erano due guide, chiamate da Andrea Bocelli che è mio amico e mi aveva seguito con affetto: Mirella Sego, che adesso è diventata la presidente della mia fondazione bosniaca per costruire l’ospedale e Michele Vasilj. Mi hanno portato da padre Jozo e poi da suor Cornelia (fondatrice dell’opera delle Suore Missionarie della Famiglia Ferita, ndr). Da suor Cornelia ho trovato una bambina di 18 mesi, Eve: i musulmani avevano ucciso e sterminato tutta la sua famiglia in uno scontro in un villaggio vicino a Sarajevo. Questa bimba mi si è attaccata al collo e è diventata mia figlia, l’ho adottata a distanza. Da lì sono iniziate cose incredibili tra cui la guarigione di una ragazza, Raffaella Mazzocchi, 24 anni, cieca, che ritrova la vista davanti a me.
La vita nuova
Ho iniziato a costruire case per orfani e anziani a Medjugorje: i soldi mi arrivano in modi inaspettati e provvidenziali, come quel 23 maggio, giorno del mio compleanno (e giorno prima del 24 maggio, Maria Ausiliatrice, la Madonna di Don Bosco), in cui ricevo la chiamata di un avvocato del Foro di Pisa che mi dice: «In qualità di legato testamentario ho una eredità da una signora di novantasette anni nata a Cascina, in provincia di Pisa che vuole costruire una casa per orfani e anziani abbandonati. Ho letto alcune sue interviste dove dice di voler realizzare questo a Medjugorje, così ho deciso di darli a lei». Arrivo così con l’assegno da Suor Cornelia. Cose da pazzi!
Io ho vissuto il miracolo della guarigione, il miracolo della provvidenza e anche la disperazione di chi non crede, di chi non ha fede e che vuole uscire dai guai, dalle croci che si è costruito da solo. Perché le mie croci me le sono fatte tutte da solo, anche belle pesanti. E per uscire da queste sofferenze alla fine sono arrivato per esclusione a Dio: ho provato tutto e non ha funzionato niente. Precipitavo sempre di più, infatti il mio primo libro si intitola “A un passo dal baratro”. Quando sono andato a Medjugorje, ho toccato con mano la grazia di Dio, come se avessi afferrato il lembo del mantello di Gesù. Ma prima quanti soldi ho speso in follie, in falsi rimedi, che ti portano solo a sprofondare sempre di più.
Non rinnego nulla di quello che ho fatto: a 58 anni ho conosciuto un disastro. Ma questo tracollo non è stato fine a se stesso: se tu ti avvicini a Dio, la croce si può trasformare in un fiore, dal legno della croce può nascere una pianta. Questa pianta è un virgulto nuovo che nasce dalla rigenerazione dell’anima e del corpo. Io penso che già sulla terra noi proviamo con la conversione quello che succede quando sei in agonia e poi va in cielo, dove sperimenterai la glorificazione del corpo e dell’anima: perché la conversione è potente, è sempre frutto dell’azione dello Spirito Santo. Però dobbiamo anche tenere presente bene quali sono le nostre miserie umane, perché è da quelle che si costruisce qualcosa. Se non ci fosse stato il baratro non mi sarei avvicinato a Dio. Allora le disgrazie non sono tutte solo disgrazie: a volte sono grazie.
Chiara Perrone Ho chiesto il miracolo per mio marito. Ho ottenuto molto di più
«Tutto quello che ci capita è proprio per noi»
La mia piccola croce comincia il 13 marzo del 2020, quando il Covid stava iniziando a diffondersi pesantemente anche da noi in Italia. Io faccio il medico e qualche settimana prima mi avevano spostata dalla mia sede abituale di lavoro in quella centrale dell’ospedale, perché bisognava curare i malati di Covid: la mia clinica riceveva dall’ospedale San Gerardo di Monza i malati per fare posto in ospedale a chi arrivava con il Covid. Mio marito torna a casa il martedì sera dicendomi di aver freddo e di sentirsi la febbre. Io lo monitoro, ma in quel momento il mio compito era andare in ospedale ad accogliere i malati, ero concentrata su quello.
Venerdì 13 la situazione non era migliorata e quindi dico ad Alberto: «Vieni, fai il tampone da me in clinica e vediamo cosa succede». Eravamo tutti certi che fosse una preoccupazione eccessiva.
Un Covid sempre più grave
Da lì comincia la nostra storia: Alberto ha fatto un Covid veramente importante, passando attraverso varie fasi. La prima settimana viene ricoverato da me in clinica, dove i malati erano lievi; quando ha iniziato ad aggravarsi, l’hanno spostato all’Opspedale San Gerardo in malattie infettive per mettere il casco, la Cpap. Dopo dieci giorni di casco, gli anestesisti gli offrono una possibilità: «Sono morte due persone in terapia intensiva per cui abbiamo pensato che sia arrivato il momento anche per lei di venire in questo reparto. È fortunato ad aver trovato un posto. Lei non è ancora così grave, però sfruttiamo questa occasione». A me dicono così: «Si tratta di una precauzione: suo marito non è ancora così grave ma preferiamo intubarlo». Io rispondo: «Va bene, mi fido». Questo “mi fido” verrà fuori altre volte nel corso della vicenda: chi mi conosce bene sa che, soprattutto quando ci sono questioni mediche, per me è difficile fidarmi e dare le persone a cui voglio bene in mano a qualcun altro. Alberto va così in terapia intensiva. Dopo due giorni ricevo questa telefonata: «Guardi, suo marito è veramente grave: tenga il telefono sul comodino perché, verosimilmente, Alberto non passerà la notte». La notte passa, al mattino suona ancora il telefono e la dottoressa mi dice: «Mi dispiace dirtelo, però, secondo me, siamo arrivati alla fine: Alberto sta proprio morendo. Adesso faremo un tentativo estremo per salvarlo, attraverso la circolazione extracorporea, però non abbiamo tante speranze di tirarlo fuori. Ti tengo aggiornata quando abbiamo finito la procedura».
In quel momento lì mi è proprio caduto il mondo addosso.
Messaggi di speranza
Non mi ricordo se ho chiamato io la mia amica Marta o mi ha chiamato lei. Scusate (si commuove). Marta è una collega: quando mio figlio Matteo aveva otto anni e si è ammalato di tumore, è lei che gli ha fatto la radioterapia. Già all’epoca ci aveva detto «pregate San Riccardo Pampuri, San Giuseppe Moscati e don Giussani, chiedete la guarigione di Matteo». Matteo è guarito, è adesso è uno splendido ragazzo di 25 anni. Quella mattina Marta mi chiama e mi dice: «Ricordati che ti devi affidare ai Santi, riguarda l’immagine di Giotto, quella dove San Giovanni appoggia il capo sul petto di Gesù e si affida. Per cui anche tu affidati completamente al Signore e chiedi il miracolo».
Già da prima avevo creato un gruppo WhatsApp di amici e famiglie che, come noi, prendono bambini in affido con l’associazione Cometa, a cui avevo già scritto quando mi avevano spostato da una clinica all’altra: avevo chiesto loro di pregare per me, perché era un passaggio che mi spaventava.
Quando Alberto si è ammalato ho iniziato a scrivere di pregare con me per la sua guarigione. Quella mattina ho inviato un testo proprio laconico: «Alberto sta morendo».
Da lì mi sono arrivati tantissimi messaggi di gente che, sfidando il lockdown, era andata ai santuari vicini per pregare per la nostra famiglia. Ricordo che mio fratello Andrea mi disse «Devi pregare Santa Teresina di Lisieux, fai la novena tutti i giorni, affidati».
Io sono cresciuta in una famiglia cattolica, appartengo anche al movimento di Comunione e Liberazione per cui ho avuto la grazia di vivere la fede profondamente, ma tutte queste testimonianze di vicinanza, in un periodo come quello del lockdown, non mi hanno mai fatto sentire sola.
Due miracoli: guarigione e conversione
I venticinque giorni di terapia intensiva sono stati molto faticosi: c’erano giorni in cui sembrava che Alberto migliorasse, poi accadeva di nuovo qualcosa di grave. Nel tardo pomeriggio mi arrivava la telefonata dall’ospedale per avere notizie: i miei figli, che erano ognuno in una stanza diversa perché io avevo il Covid e loro no (per cui c’erano anche tutti i distanziamenti sociali in casa), quando sentivano squillare il telefono correvano, si stringevano intorno a me, ascoltavano il resoconto e mi dicevano: «Papà ha superato anche questa». Allora ci inginocchiavamo tutti e tre e dicevamo una preghiera di ringraziamento alla Madonna.
Poi io scrivevo il messaggio agli amici per aggiornarli, continuando a chiedere il miracolo della guarigione di Alberto. Questo grosso miracolo, la guarigione totale e completa di Alberto, c’è stato. Ma voglio ricordarne anche un altro: la mia conversione. Perché ognuno di noi può dire di credere, ma la conversione è quotidiana: il “sì” che dobbiamo dire deve essere in ogni momento. Ho scoperto dopo che il mio messaggio è arrivato davvero a tantissime persone, che ci hanno accompagnato nella preghiera. È stato inoltrato anche nel Benin. Mi è arrivato un messaggio da una suora di colore, francese, che mi ha scritto: «Coraggio, abbi fede! Il Signore c’è e tuo marito si salverà. Abbi fede e abbi coraggio. E continua a pregare». Io pensavo di aver scritto solo ai miei amici e invece le notizie sulla salute di mio marito sono arrivate ovunque.
Ho ripensato a quello che mi aveva detto la mia amica Marta: «Bussate e vi sarà aperto!». Probabilmente abbiamo bussato talmente forte, ed eravamo talmente tanti, che è stato aperto un portone, non una porta. Mi sono riletta oggi la preghiera di Santa Teresina di Lisieux: chiede proprio di avere in dono la fede e questa vicenda sicuramente ha consolidato una fede, che era già partita tempo fa. Nel senso che Alberto e io abbiamo avuto già qualche piccola croce (ma questa è stata la più impegnativa, devo dire). Però, come dicevamo poco fa nei precedenti interventi, la croce ha dentro la risurrezione: non c’è croce senza risurrezione. La prima croce l’abbiamo avuta appena sposati: nella mia prima gravidanza aspettavamo due bimbe, Benedetta e Francesca… sono nate troppo presto, quindi abbiamo due angeli custodi in Cielo. Poi la malattia di nostro figlio, una notizia tremenda. Però, mi ricordo che quando abbiamo appreso la notizia, ci siamo seduti fuori dall’ospedale San Gerardo di Monza e ci siamo detti: «Se il Signore ci dà questa croce da portare è perché ritiene che sia per noi e che possiamo portarla. Questa croce darà frutto». Effettivamente ha dato frutto, come ha fatto anche questa storia del Covid di Alberto, che ha portato la conversione, innanzitutto mia ma anche di tante persone che sono state raggiunte da questo messaggio. Ha rappresentato proprio un’occasione di centrare le cose fondamentali della vita. Che non è neanche la guarigione, perché certo la guarigione è quello che chiedevamo, ma io ho ottenuto davvero di più: oltre ad avere la guarigione completa di Alberto, ho ottenuto la possibilità di guardare le cose in un modo diverso. Questo mi ha permesso di avere preso coscienza che le cose non le facciamo e non le decidiamo noi. Siamo veramente in mano a un Altro che ci vuole bene, perché tutto quello che ci capita è proprio per noi: questa vicenda me l’ha reso visibile.