Dal piombo alla fede – Arrigo Cavallina, fondatore dei Pac, racconta a Voce la sua storia

«L’esperienza del cristiano è una esperienza di gioia. Si può recuperare un passato che non si vorrebbe avere fatto, per costruire un senso diverso. Che guarda avanti

 

Arrigo Cavallina, classe 1945, (nella foto qui accanto) è stato uno dei fondatori del gruppo eversivo Proletari Armati per il Comunismo: i Pac. Un gruppo terroristico che, nato nel 1977, è stato tra i protagonisti degli anni di piombo, con azioni violente, omicidi, rapine, attentati. Cavallina ha scontato 12 anni di carcere per associazione a banda armata e concorso nell’omicidio del maresciallo Antonio Santoro, il capo degli agenti di custodia del carcere di Udine, nel 1978. Gli anni dietro le sbarre, che in origine erano 22, sono stati ridotti per partecipazione al percorso di rieducazione, indulto e buona condotta. Quel periodo di detenzione è stato anche un periodo di redenzione e di conversione: l’ex fondatore dei Pac, infatti, si è avvicinato alla Chiesa, soprattutto grazie a una fitta corrispondenza tenuta con il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano. Dal periodo di reclusione, e poi una volta in libertà, Cavallina ha intrapreso una significativa attività di volontariato che prosegue tuttora. Questa testimonianza la si può trovare anche nei suoi libri: “Il terrorista & il professore”, “La piccola tenda di azzurro” e “Di sasso in sasso”. Noi lo abbiamo intervistato.

Cavallina, perché nascono i Pac: cosa volevate e sognavate?

«Eravamo già in una fase in cui le conquiste proletarie del potere erano impossibili. Però, da un lato, abbiamo tentato di ricostruirci un’idea di comunismo che fosse diverso dell’impossessamento della macchina statale, per ricavare autonomie personali che si muovessero senza obblighi di lavoro. E, dall’altra parte, un elemento determinante, che per noi valeva molto: le difficili condizioni di detenzione, che avevo già conosciuto e che tanti nostri amici vivevano ancora».

Però c’era anche altro: omicidi, ferimenti, attentati, rapine, incendi, banda armata. Qual è la cosa più grave che ha fatto?

«Giuridicamente, è stato aver dato vita a una banda che ponesse in atto queste cose, senza tenere conto del limite della vita nostra e degli altri. Il reato più grande è stato l’omicidio in concorso di Antonio Santoro (maresciallo degli agenti di custodia della casa circondariale di Udine ucciso da Cesare Battisti il 6 giugno 1978, ndr), ma altri episodi in cui sono stato assolto hanno tutti origine dal fatto che abbiamo costituito il gruppo».

Prima del secondo arresto inizia il suo allontanamento dai Pac. È così?

«Sì. Già nel 1979, prima di ritornare in carcere. Non ero d’accordo, ma non era un dissenso di impianto etico. Era il dissenso di chi diceva: “Non sono d’accordo su azioni fuori luogo”. Ritenevo che la nostra fosse una sconfitta irrimediabile. Allora, mi sono detto, tanto vale tirare i remi in barca e pensare al mio privato. Quando ero ben incamminato nella strada per mettere famiglia, ho vissuto alcuni lutti personali e volevo ricominciare la mia vita, ma sono venuti a prendermi per un periodo più lungo di detenzione. Però, il pensiero di mollare c’era già in quei mesi. In un certo senso, ero contento della nostra sconfitta».

Il 21 dicembre 1979 torna in carcere, nell’operazione “7 aprile”: ci starà per 12 anni.

«In carcere mi accorgo che quelli che noi pensavamo potessero essere alleati, come membri della delinquenza comune, in realtà erano senza ideali, più tesi ad accordarsi con il potere che a contrastarlo. Ma soprattutto mi sono ritrovato con tanti ex combattenti e rivoluzionari che stavano già ragionando, come me, sul fatto di aver sbagliato tutto e che bisognasse ricostruire senza la convinzione di avere un’altra lettura del mondo. Lì ho trovato, tra quelli del “7 aprile” e altri, un’utile condivisione legata al ripensamento. A Rebibbia eravamo “collegati” a quello che accadde a Milano, dove un gruppo di ex terroristi consegnò il proprio arsenale di armi al cardinal Martini, arcivescovo di Milano».

Era il 13 giugno 1984: quel gesto toccò anche voi. Da dove partì il vostro movimento della “dissociazione”?

«Ci siamo accorti che le utopie, le ideologie erano sbagliate, irreali, basate su premesse morali errate. E le cose che abbiamo fatto erano, di conseguenza, un errore. Il primo passaggio è stato distaccarci dal nostro passato: “Non siamo d’accordo con le persone che eravamo ieri” dicevamo. Secondo punto: non eravamo comunque disponibili a guadagnare dei benefici in cambio di denunce, quello che allora veniva chiamato “pentitismo”. Dicevo: “Se avessi informazioni che permettono di sventare un reato, le direi. Ma se le informazioni che ho servono ad aumentare le pene di qualcuno che è già rovinato, in cambio di una diminuzione delle mie, non ci sto”. E questo ci ha consentito di poter tentare un lavoro educativo, di dialogo con chi, invece, pensava ancora di stare al fronte, gli irriducibili. Se li avessimo denunciati, non avremmo mai più parlato con loro. Così siamo diventati più credibili. E questo ci è stato riconosciuto anche dalla magistratura».

Dicono di lei che si è convertito. E che va anche a Messa.

«È stato ed è un percorso lungo. Partirei dalle tante testimonianze valide che ho incontrato. La più importante con Cesare Cavalleri (giornalista cattolico, ndr): era stato mio insegnante all’Istituto Pindemonte, mi scrisse una lettera nel 1984, mentre ero a Rebibbia».

Da lì è iniziato un lungo carteggio, come racconta nel libro “Il terrorista e il professore”.

«Cavalleri è stato il mio testimone di nozze, ho una enorme riconoscenza nei suoi confronti. Poi posso citare don Luigi Melesi, cappellano a San Vittore, e il direttore della Caritas di Roma. Ma anche il cardinale Martini, con cui ho avuto una corrispondenza e che mi ha regalato diversi libri. Da queste esperienze è nato un interesse per le Scritture: la Bibbia è diventata centrale, la lettura fondamentale».

Quindi a Messa ci va o no?

«Ma certo, ci vado sempre, perbacco (ride). Sono convinto, e faccio anche la Comunione. Forse in una chiesa preconciliare non ci sarebbe posto per me. Ma nella chiesa attuale, invece, mi sento accolto».

Potesse tornare indietro rifarebbe tutto da capo?

«Per carità, no. Magari potessi, forse riuscirei a fare qualcosa di buono, in un altro campo. Magari in politica o forse, meglio ancora, sul piano educativo. Mi faccia un’altra domanda…».

Ci provo. Ha fatto pace con il “vecchio” Arrigo?

«Questa è decisamente migliore (sorride). È stato un bel lavoro, sono stato aiutato tanto. Istintivamente non facevo pace con me stesso. Ero io la causa di quello che stavo sopportando. Però i libri di Martini, le discussioni con Cavalleri, i ripensamenti, le Scritture, mi fanno dare alla parola “perdono” un senso più ampio. Il passato rimane come esperienza, ma ho capito che posso dare un senso diverso. Da questo passato ho imparato e mi serve oggi, nel mio impegno come volontario, per i rapporti con i detenuti e i tossicodipendenti. Allora non serve tenere il rancore. C’è un passaggio del libro di Martini, un commento sul “Miserere”, che mi ha sempre toccato».

Cosa dice?

«Dice che l’esperienza del cristiano è una esperienza di gioia. Puoi avere combinato le peggiori cose, puoi essere Caino o Maddalena, però c’è un annuncio di Salvezza. Conta quello che sei, che puoi diventare e fare. Non è più ciò che hai fatto, ma chi sei oggi. E questo deve rendermi contento, e convinto. Questo non significa non avere il dispiacere per ciò che è successo, per carità. Ma si può recuperare un passato che non si vorrebbe avere fatto, che non è modificabile, per costruire un senso diverso. Che guarda avanti».

  Nella foto di copertina: Giuseppe Memeo dei Pac, durante lo scontro di via De Amicis a Milano (1977)

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