Intervista a Gioacchino Fusacchia, il primo allenatore di Kobe Bryant nei due anni a Rieti
Da domenica 26 gennaio il mondo dello sport è più vuoto se n’è andata via l’ex stella dell’Nba Kobe Bryant. Stava accompagnando con il suo elicottero la figlia Gianna, promettente cestista, a una partita. Poi l’incidente a Calabasas e lo schianto al suolo. Con lui la figlia di 13 anni, il pilota e sei persone. Oltre alla moglie Vanessa, Kobe lascia tre figlie. Nato a Filadelfia il 23 agosto 1978, “Black Mamba” (come veniva soprannominato) ha indossato una sola maglia, quella giallo-viola dei Lakers dal 1996 al 2016. Cinque titoli Nba in bacheca, e record abbattuti come birilli. Bryant lascia il segno anche in Nazionale con due Ori olimpici nel 2008 e nel 2012. Più dei risultati di Kobe stupiva il suo approccio al lavoro: ostinato, motivato, ossessivo. A questa ossessione con gli anni è stato cucito addosso un nome: “Mamba mentality”. Ma di Bryant bisogna ricordare anche lo stretto legame con l’Italia: dai sei ai 13 anni ha vissuto al seguito del padre, Joe, giocatore professionista di basket, prima a Rieti e Reggio Calabria, poi a Pistoia e Reggio Emilia. «Kobe si è innamorato del basket proprio qui, a Rieti» ci racconta Gioacchino Fusacchia (nella foto qui sotto), istruttore di mini-basket e insegnante di Scienze Motorie, che ha allenato il piccolo campione nei primi due anni in Italia. Un grande atleta, un grande uomo che ci invita a sognare in grande. Niente è impossibile. Anche partendo da un campetto in cemento a Rieti…
Gioacchino, come si sente a essere stato il primo allenatore di Kobe?
«Ho avuto la fortuna, non il merito, di aver incrociato la mia vita professionale prima con Joe e di conseguenza con Kobe. Non posso vantarmi di avere di meriti sulla sua carriera. Ho solo cercato di non fargli passare la voglia di giocare. E questa, sia adesso che quarant’anni fa, è stata la cosa più importante».
Cosa l’ha colpita in quegli anni di lui?
«Se devo essere sincero, Kobe era un gran “rompiscatole” (sorride). Fuori dal campo era timido, ma in campo era vivacissimo. Stava sempre con la palla in mano, pretendeva sempre di giocare, senza aver paura di chi aveva contro».
Quindi la “Mamba mentality” a Rieti?
«Per me è nata proprio in quegli anni. Che fosse diverso dagli altri, lo poteva notare chiunque. Era maniacale, ma sin da piccolo, se c’era un posto per giocare lui era là. Appena usciva da scuola aveva un unico pensiero fisso: la palla a spicchi».
Oggi, che messaggio ci lascia Kobe?
«Il messaggio che ha sempre voluto dare è quello di sognare, credere nei sogni anche se impossibili. Poi se abbinato a questo sogno c’è del talento bisogna insistere allenandosi duramente. Questo in tutti i campi della vita, non solo nello sport».
Non ha mai dimenticato da dove è partito…
«La sua grandezza credo che sia proprio questa. Non so quali altri campioni dello sport abbiano ricordato e ricordassero le proprie radici in modo così concreto. Kobe parlava perfettamente l’italiano. Certo, ha frequentato le scuole qui e quando è tornato in America conosceva meglio l’italiano che la sua lingua d’origine. Ma dopo ha continuato a coltivare questo rapporto con il nostro Paese».
Cosa ha pensato dopo l’incidente?
«Sembrerà banale ma è come se fosse morto un conoscente, un amico, uno di casa. La sua presenza, per chi vive di basket, era quotidiana, soprattutto qui a Rieti. Perché capita spesso di vedere il bambino con la maglietta dei Lakers, con la numero “8” o la “24”. E ti torna in mente. Rimarrà un grosso punto di riferimento per tutti, non solo per questa città».
Alessandro Venticinque