Intervista esclusiva all’allenatore dei Grigi Angelo Gregucci
Da San Giorgio fino alla Nazionale
«Penso di conoscere più di tutti l’Alessandria. I Grigi li ho vissuti in vari momenti della mia vita: a 20 anni, a 50 e adesso a 56. È una presunzione? No, nessuno mi può insegnare che cosa sono i Grigi». Inizia così la nostra chiacchierata con Angelo Adamo Gregucci (nato a San Giorgio Ionico, in provincia di Taranto, il 10 giugno 1964), attuale allenatore dell’Alessandria Calcio. Partito da un piccolo paese del Sud, si fa le ossa a Taranto e ad Alessandria. Poi arriva in Serie A con la Lazio (dal 1986 al 1993), prosegue un anno al Torino e conclude la sua carriera, nel 1998, con quattro anni alla Reggiana.
Da qui inizia la sua carriera da allenatore: tra le tante squadre (Salernitana, Vicenza, Reggina) sono fondamentali anche le esperienze al fianco del suo amico Roberto Mancini: prima al Manchester City, poi allo Zenit di San Pietroburgo e infine in Nazionale.
E poi ci sono i Grigi… Parlare dei Grigi con Angelo non è solo ricordare i quattro anni passati in riva al Tanaro da giocatore (dal 1982 al 1986); oppure raccontare la stagione del 2016 quando è l’allenatore della squadra che arriva a giocarsi la semifinale di Coppa Italia contro il Milan. Parlare dei Grigi con Angelo è entrare nella sua vita personale: sembra quasi che custodisca l’Alessandria nel profondo del suo cuore e la difenda anche con un pizzico di (sana) gelosia. Come se, nonostante gli anni e le esperienze (ben più prestigiose), questa maglia gli rimanga cucita addosso.
A fine gennaio è tornato sulla panchina dell’Alessandria. Dopo lo stop forzato a causa del Covid-19, la squadra ritornerà in campo per i playoff di Serie C: 23 squadre per un solo posto in Serie B. Per i Grigi la data di inizio è fissata per il secondo turno di domenica 5 luglio, l’avversaria sarà il Siena.
Angelo, come arriverete ai playoff?
«Nessuno può dire come arriveremo fisicamente a questa competizione. La straordinarietà di questo evento ci sta condizionando, per cui è fondamentale tirare fuori da ogni giocatore il meglio. Ma credo che un altro aspetto importante saranno gli infortuni».
Ecco, come stanno i tuoi ragazzi?
«Dal punto di vista fisico non possiamo paragonare questo momento storico a nessun altro: chi mai era rimasto fermo in lockdown per mesi? Al ritorno in campo c’è stato molto entusiasmo, perché la passione e il senso del gioco c’è anche tra i professionisti. Se a me da ragazzo avessero detto: “Tu per tre mesi non tocchi un pallone”, sarebbe stato un problema grosso (sorride). Adesso è importante soffermarsi non solo sul fisico, ma trovare delle forti motivazioni. Siamo 23 squadre per un posto che tutti vogliamo…».
Una competizione già complessa in condizioni normali. Adesso chi sono le favorite?
«Il campo ribalta tutto. Statisticamente dico che le favorite sono le seconde dei tre gironi, perché giocheranno meno incontri rispetto alle altre. Ma questa è solo una questione di numeri, tutte saranno pronte a dar battaglia. Giocarcela per noi è l’obiettivo primario, e lo faremo con le nostre motivazioni e la voglia di far bene».
Molti hanno storto il naso per questa tua frase, in una conferenza stampa di qualche giorno fa: «Ci prepariamo per vincere i playoff».
«La mia non è presunzione, ma è una constatazione logica. Nella mia esistenza, qualunque cosa sia andato a fare, sono partito sempre per farla nel migliore dei modi. Non potrò mai dire: “Vogliamo perdere”. Non penso che a Bari, Terni, Reggio Emilia o Padova dichiarino di voler giocare per perdere. Le squadre indecise hanno scelto di non partecipare, quindi chi è dentro cercherà di vincere. Se le dichiarazioni sono state fraintese sinceramente non mi interessa. La cosa più importante è che i miei calciatori sappiano cosa voglio io. Poi se saremo forti lo deciderà il campo».
Credi che con le difficoltà economiche in cui si trovano molte società si andrà verso un professionismo di élite? Si sta già parlando di due gironi per la Serie B, facendo diventare dilettantistica la Serie C…
«Non è il mio mestiere, quindi non posso risponderti. Io cerco solo di allenare la mia squadra, motivando l’ambiente e il gruppo per vincere».
Facciamo un passo indietro. Hai qualche rammarico per il finale di stagione del 2016?
«Sinceramente no. Non cerco riconoscenza, cerco serietà, lavoro e meritocrazia. Ho raggiunto un’età in cui mi lascio scivolare addosso le critiche che non sono importanti. Ho cercato di lavorare con la massima professionalità, cerco di dare sempre ascolto alla mia coscienza. Non parlo dei risultati che ottengo in campo, ma cerco di valutarmi per il lavoro quotidiano che faccio. Sono ipercritico con me stesso, per questo cerco di prendere con le pinze le critiche che mi arrivano. Faccio tesoro solo di quelle analizzabili e costruttive».
Non credi che in questi anni si potesse ottenere di più in termini di risultati, viste le risorse impiegate da Di Masi?
«Questo fa parte del passato, se vuoi ricominciare devi azzerare e ripartire. E così è la vita: guardare la realtà e maturare partendo dai propri errori, per poter leggere le situazioni in modo più certosino ed essere dettagliato nello scegliere gli uomini. Parliamoci chiaro, in Serie C non ci sono giocatori che fanno la differenza. Oserei dire anche in B. Sono categorie in cui se tu crei uno zoccolo duro, un senso di appartenenza e un ambiente corretto puoi raggiungere obiettivi importanti».
Nella prefazione della tua biografia (“I colori dei miei sentimenti”, Ultra editore), mister Eugenio Fascetti ti definisce un uomo con la “U” maiuscola. Quanto sono importanti gli Uomini nel calcio?
«Gli uomini fanno la differenza. I calciatori quando arrivano a un certo livello si appiattiscono tutti, sono i valori dentro all’uomo che contano. La prima cosa che ho fatto quando sono arrivato in Serie A è stata non dimenticarmi di ringraziare l’Alessandria. Questa società mi ha dato l’opportunità di diventare uomo: mi ha fatto crescere, mi ha fatto sbagliare, mi ha reso un calciatore che, da mezzo sciagurato, si è costruito partita dopo partita. L’Alessandria ha accettato tutte le mie mancanze. Sono nato in un piccolo paese del Sud, ma ho fortemente rivendicato le mie origini attraverso questa società. Quando poi sono arrivato a un certo livello, l’opportunità che avevo tra le mani non me la sono fatta scappare. Sai quanti ce n’erano più talentuosi di me? Nella mia carriera li ho superati solo perché avevo una visione, la mia. Ho accatastato legna per arrivare in Serie A, e arrivato lì non ho permesso a nessuno di rubarmela, l’ho difesa con le unghie e con i denti».
Non credi che oggi ai giovani non si dia nemmeno il tempo per sbagliare?
«Il mondo è cambiato. Personalmente cerco un giovane calciatore che abbia una visione, una meta dove arrivare. In questo, io e la squadra faremo di tutto per accompagnarlo. Sono anni difficili, non solo nel calcio ma anche nella vita. È difficile che un giovane abbia un orientamento preciso. Io non avevo lo smartphone e Google per farmi “imbambolare” tutto il giorno. Avevo un obiettivo fisso in testa e volevo raggiungerlo a tutti i costi».
Nella tua carriera che tipo di persone hai incontrato?
«Nel “bouquet” variegato di persone che ho incontrato c’è di tutto: da chi stare ad ascoltare e prendere come esempio, a chi ignorare direttamente. Vivo di contratti calcistici da quasi quarant’anni, ne ho trovati di personaggi, e di ogni sfumatura… da italiani fantastici a persone meno belle, fino a stranieri meravigliosi. In particolare, mi hanno sempre colpito gli uruguaiani, perché vivono in una dimensione differente. Appena indossano la maglietta della Nazionale si trasformano, quei colori hanno un valore troppo profondo per loro. È la rivendicazione di un popolo, dicono: “Non giochiamo in 11, giochiamo in 3 milioni”. Poi ho avuto anche la fortuna di giocare in un periodo in cui la Serie A selezionava anche gli stranieri, non per razzismo ma per qualità calcistiche. Quindi in Italia veniva il meglio del calcio mondiale, puoi capire quanto sono stato fortunato…».
Ritorniamo a oggi: sarà un calcio senza tifo, cosa cambia?
«Il calcio è differente. Ma lo abbiamo già notato con le partite in Italia, con la Coppa Italia e la Serie A. Una partita di calcio è un evento sportivo, la rappresentazione di un campanile, la passione del popolo. Tutto cambia, ma ci si attiene allo stesso regolamento: si gioca sempre 11 contro 11 e partiamo da 0 a 0. Per chi fa questo sport l’ambiente inevitabilmente cambia, ma speriamo per prima cosa di superare questo momento d’emergenza e poi di riconsegnare il calcio alla passione della gente».
Un invito ai tifosi per accompagnarvi in questi playoff.
«I nostri tifosi ci sono sempre vicini. Sono dell’idea che non serva stimolarli, ma lasciare “viaggiare” libero il loro calore. La cultura sportiva di un popolo è spontanea e fisiologica, nessuno la può toccare e manipolare. Non potranno esserci, ma la loro passione la sentiremo sempre al nostro fianco».
Alessandro Venticinque