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Astutillo Malgioglio: numero 12 in campo, numero 1 nella vita

La storia dell’ex portiere di Serie A e fondatore di “Era 77”

Ci sono interviste che non sono come le altre, e ci sono storie che hanno un sapore diverso. Quella di Astutillo Malgioglio, ex portiere di Brescia, Roma, Lazio e Inter, è proprio una di queste. La vita del calciatore piacentino però non va avanti solo ad allenamenti, ritiro e famiglia. C’è qualcosa in più. In quei primi anni di carriera incontra una ragazza con gravi problemi motori: in lui e sua moglie, Raffaella, scatta qualcosa. Fondano così l’associazione “Era 77”, una palestra a Piacenza in cui la coppia offre terapie gratuite di attività motoria a persone con disabilità. Finiti gli allenamenti con il Brescia, Tito (come lo chiamano gli amici) sale sul Maggiolino e corre in direzione Piacenza, dai “suoi” ragazzi.

Ma non tutti (nel mondo del calcio e non) “digeriscono” questa sua seconda vita: è una “distrazione” che un professionista non può permettersi. In particolare a Roma sponda biancoazzurra (nella stagione ’85-’86): in un Lazio-Vicenza 3 a 4, in cui il portiere è complice di due delle quattro reti subite, dopo gli insulti dalla curva, a fine partita Astutillo si toglie la maglia, ci sputa sopra e la getta verso i tifosi. Poi straccia il contratto e lascia la Capitale, i tifosi laziali lo contestano con uno striscione: «Tornatene dai tuoi mostri».

Ma sulla sua strada Tito trova anche persone che lo comprendono. Nils Liedholm e Sven Goran Eriksson, allenatori del portiere alla Roma dall’83 all’85, convincono il presidente, Dino Viola, a mettere a disposizione di Malgioglio la palestra di Trigoria, per permettergli di fare anche a Roma ciò che aveva cominciato a Piacenza. Poi va all’Inter: a Milano ci arriva per volontà di mister Trapattoni, che lo vuole a tutti costi in squadra. Tra i nerazzurri c’è anche il tedesco Jürgen Klinsmann, che un giorno decide di andare a visitare i ragazzi di “Era 77”. Dopo l’incontro, con gli occhi lucidi, senza pensarci due volte il tedesco stacca un assegno da 70 milioni.

Tito in campo ha difeso la porta indossando i guantoni, fuori ha deciso di donare il suo tempo gli ultimi e i più deboli. Senza paura di non essere capito o accettato.

Astutillo, partiamo dall’inizio: come si è avvicinato al mondo del calcio?
«Sono nato nel 1958 da una famiglia povera di Piacenza, mio padre era un operaio e mia madre una casalinga. Quindi mi sono avvicinato al calcio grazie all’oratorio, poi ho iniziato a giocare al San Lazzaro Alberoni. A 14 anni sono andato alla Cremonese e nel 1976 ho firmato il primo contratto da professionista con il Bologna».

Poi arriva il 1977… cosa accade?
«Sono passato in prestito al Brescia, in Serie B, dove giocavo titolare. Mi sono sposato con Raffaella ed è nata mia figlia. In quegli anni la carriera di un giocatore non dipendeva molto dal procuratore, dovevi solo avere qualità e sperare di non inciampare in infortuni gravi. E la mia vita stava andando nel verso giusto…».

Anche fuori dal campo?
«Fuori qualcosa stava per cambiare… In quel periodo conosco una ragazza con gravi problemi motori, io e mia moglie rimaniamo colpiti. Raffaella si iscrive all’Isef e fa dei corsi di psicomotricità, e qualche anno dopo abbiamo l’opportunità di insegnare alla “Domus caritatis” in una classe di ragazzi disabili. Intervallavo con molta fatica queste due attività: cercavo di ritagliarmi sempre del tempo dagli allenamenti quotidiani, i ritiri e la bambina piccola. Solo Dio sa come si può arrivare a fare certe cose. Penso sia già tutto dentro di noi, è bastata una scintilla per far scattare il desiderio di aiutare chi stava peggio di me».

Come nasce “Era 77”?
«Dopo queste belle esperienze, abbiamo pensato di creare una palestra in cui fare attività motorie per i “nostri” ragazzi. Uno spazio a disposizione di tutti, in cui cercavamo di amare chiunque si rivolgesse a noi. Finché ho giocato “Era 77” è andata avanti bene, poi dopo qualche anno abbiamo dovuto chiudere. Oggi, io e Raffaella, abbiamo deciso di andare direttamente nelle famiglie, di casa in casa. Ci mettiamo a disposizione di chi ha bisogno. C’è chi ci chiede di fare attività fisica, dalla ginnastica alla psicomotricità, chi ci chiede di tenergli la mano perché non può muoversi, chi di dargli da mangiare, chi un abbraccio e un sorriso perché ne ha bisogno. Queste persone danno già tanto nella loro sofferenza, noi cerchiamo di dare a loro quel poco che possiamo… È difficile, sicuramente, ma quello che facciamo è indispensabile, ci dà la voglia di vivere».

Cosa c’entra la fede nella sua storia?
«La fede è stata determinante. È l’ossigeno per me, quella che mi fa andare avanti. Viviamo in un mondo di sofferenza, dove l’uomo riesce a dare molto poco, quasi niente. Se non hai una motivazione “diversa” diventa tutto più difficile. Per questo credere in Cristo non mi ha mai fatto avere paura di niente. Solo ed esclusivamente la fede mi ha aiutato nei momenti più duri, sia in campo che fuori».

Ma non a tutte le squadre andava bene questa sua “seconda vita”?
«A nessuna società andava bene, ma finché riuscivi a dare un contributo tecnico nessun problema. Altrimenti cercavano un sostituto. Molto dipendeva, non dalla società, ma dalle persone che c’erano dentro. All’Inter, in un certo senso, mi hanno capito come persona e sono riuscito a vivere serenamente quegli anni».

E proprio all’Inter c’è un episodio curioso con un suo compagno di squadra…
«Sì, parliamo di Jürgen Klinsmann! All’epoca era un ragazzo giovane che è venuto a trovare i miei ragazzi e si è trovato bene. Ha capito quello che facevo, sono contento per lui. Ha conosciuto un mondo diverso rispetto a quello che si immaginava. E così ha deciso di aiutare economicamente “Era 77” (dopo l’incontro “ravvicinato” il calciatore tedesco, rimasto molto colpito, prende il libretto degli assegni e ci scrive sopra “70 milioni”, ndr). Klinsmann è stato un convertito, purtroppo però è stato solo un episodio. Molti potrebbero fare di più, ma fanno fatica a uscire dalla loro “sfera”. Potrebbero essere un grande contributo per una società diversa».

È rimasto deluso dal mondo “freddo” dei professionisti?
«Deluso no, perché quando sono diventato professionista ho capito sin da subito che non era il mio mondo. Ma nonostante le difficoltà, ho continuato a fare quello che per me era determinante e fondamentale per la mia vita: mettermi al servizio degli altri».

Non crede che nello sport ci sia qualcosa da cambiare?
«Non spetta a me giudicare. Ho una vita bella e sono orgoglioso di quello che faccio. Però quando guardo il mondo dalla parte delle famiglie in cui vado, capisco quanto sia davvero difficile vivere nelle loro condizioni. Il calcio è uno specchio del mondo di adesso: il godimento è materiale e la felicità è data da qualcosa di effimero. Quando capiranno che la vita è veramente un’altra cosa, dovranno aggrapparsi a queste persone, che spesso sono dimenticate, perché sono un esempio concreto di quello che è il nostro stare al mondo».

Torniamo al presente: come ha vissuto questi mesi di emergenza?
«Ho vissuto l’emergenza sulla mia pelle, perché avendo contatti con persone disabili che hanno avuto il virus siamo stati costretti all’isolamento. A Piacenza la situazione è stata tragica… Ancora più triste è stato vedere come in pochi abbiano parlato delle persone disabili che hanno contratto il Covid-19. La voce della povera gente, dei disabili, è troppo silenziosa. Una tristezza grande… nell’emergenza è emerso ancora una volta quanto le persone che hanno bisogno siano davvero le ultime».

Nel mentre si è tornati a giocare…
«Per me questo è stato meno importante (sorride). Certamente è un segnale di ripartenza, sperando che questi possano essere momenti di svago e felicità, essendo il calcio uno sport popolare».

Chi è oggi Astutillo Malgioglio?
«Mi reputo una persona fortunata, che dà tanto agli altri e riceve tantissimo. Ho fatto solo quello che mi è stato chiesto di fare, e non chiedo niente di meglio dalla mia vita. Dio ha apparecchiato per me questa tavola, io non potevo non sedermi al suo tavolo».

Alessandro Venticinque

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