Le voci del teatro
Regista, drammaturgo, autore, direttore della scuola del Teatro Stabile di Torino e dal 2004 docente di Istituzioni di Regia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano. Lui è Gabriele Vacis, che noi alessandrini abbiamo conosciuto più da vicino quando è stato direttore artistico del nostro Teatro, dal 2008 al 2010.
Vacis, il suo giudizio sulla chiusura dei teatri?
«La disciplina, la sequela rigorosa delle normative sulla sicurezza, l’attenzione al singolo spettatore e il rispetto verso il teatro non sono stati bastati a impedire questa chiusura. Purtroppo la considerazione dei politici italiani, di qualunque schieramento, nei confronti della cultura è davvero bassa. La tv viene sempre salvaguardata, forse perché è utile alla propaganda, il resto no. Lo stesso ministro della Cultura Franceschini aveva proposto qualche tempo fa una sorta di “Netflix del teatro”: ma è una cosa che dovrebbe fare la Rai, e non solo con Rai 5 che oltretutto trasmette sempre le stesse cose… Non credo tanto nella malafede, ma più nella confusione: questi signori non colgono, ahimè, la differenza tra cultura e intrattenimento. Al punto che il nostro presidente del Consiglio ha parlato degli artisti come di coloro “che ci fanno tanto divertire”».
C’è differenza tra cultura e intrattenimento?
«L’intrattenimento ha una dimensione spettacolare straordinaria e si appoggia molto alle tecnologie. Per me, per capirci, l’intrattenimento è Netflix: è comodo, non ha limiti, mi diverte e conferma ciò che già so. La cultura invece è molto più impegnativa, e apre le porte verso quello che chiamo “l’inconosciuto”. Io dirigo una scuola di teatro e devo chiedermi come posso essere davvero utile ai ragazzi che la frequentano. Potrebbero tranquillamente andare dalla De Filippi, che ai più bravi tra loro garantirebbe fama, successo e denaro. Ma io che cosa offro di interessante, allora? Offro l’apertura sull’inconosciuto. Ad “Amici” si impara a fare quello che già esiste, come il musical per esempio; da noi, nella nostra scuola, no, anche se i miei studenti cantano e ballano benissimo. Oltre a saper recitare».
Lo spettacolo dal vivo fa paura a chi governa?
«La politica avrebbe proprio bisogno di ascoltare i territori, di cogliere le richieste dei cittadini, ma non sa farlo. Il teatro da questo punto di vista potrebbe essere uno strumento di ascolto, ma siamo noi a doverglielo far capire, e spesso non lo facciamo. Perciò faccio fatica a condividere un atteggiamento di rivendicazione (“La società civile ci deve riconoscere!”) o di commiserazione. Abbiamo di certo qualche responsabilità se non veniamo considerati adeguatamente… Quanti teatri o assessorati alla cultura hanno fatto solo “intrattenimento”? La società civile riesce a percepire chi siamo veramente? La colpa è anche un po’ nostra, non siamo stati chiari negli ultimi anni».
Qual è il futuro del teatro, secondo lei?
«È l’inclusione. Lo specchiarsi nel volto dell’altro in presenza. Per questo è importantissimo il teatro, perché ha la possibilità della presenza. E ciò ha molto a che fare con la scuola, a livello di pratica. L’insegnante, o meglio il maestro, come vorrei venisse chiamato, è colui che ascolta, e quello che dice lo dice a delle persone che ha di fronte. Non fa mai la stessa lezione, perché davanti a sé ha volti sempre diversi. Ascoltare chi ascolta: questo può succedere solo a teatro o a scuola. Allora, credo che il futuro del teatro sia da una parte il museo, in un’accezione assolutamente positiva, di conservazione e valorizzazione della nostra splendida tradizione teatrale. Dall’altra parte, invece, il futuro del teatro è l’inclusione. Cambia il ruolo dell’artista, che è chiamato a essere uno “sciamano”. Jerzy Grotowski (regista polacco, considerato uno dei padri del teatro contemporaneo, ndr), che considero il mio maestro, parlava di “attore-santo”. Il futuro del teatro è interazione: riconoscere l’uno il volto dell’altro, essendo presenti entrambi, attori e pubblico, nel tempo e nello spazio».
Andrea Antonuccio
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