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Daniele è vivo, non smettiamo di cercarlo

Intervista a Francesco Potenzoni, padre di Daniele scomparso nel 2015

Sono passati sei anni e mezzo da quel mercoledì 10 giugno 2015. Quando Daniele Potenzoni (nella foto qui sotto), allora 36enne affetto da autismo, di Pantigliate (Milano), sparisce nella metropolitana di Termini, a Roma. Un flash di pochi istanti: la folla, le porte della metro che si chiudono, Daniele che rimane dentro, e poi sparisce. Era nella Capitale, con il centro diurno che frequentava nel suo paese, per partecipare all’udienza del Papa: non è più riuscito a vederlo. Così come non è più riuscito a vedere la sua famiglia, che, ancora oggi, lo cerca disperatamente, senza arrendersi.

Ma non solo loro. Per questa vicenda si sono mobilitati tutti: da Francesco Totti, con l’appello del 2016, al camion vela che gira tutti i giorni per la Capitale, guidato da un volontario, con sopra alcune foto di Daniele. Fino a Federica Sciarelli (a sinistra, nella foto di copertina) storica autrice e conduttrice di “Chi l’ha visto?”, che ha appena pubblicato “Il caso Potenzoni” (Einaudi). Questo libro è scritto a quattro mani con Francesco (a destra, nella foto di copertina), padre di Daniele, che quando riusciamo a contattare ci spiega: «Dio ci ha messo di fronte a una prova. Noi sentiamo Daniele vivo, non ci fermiamo e andremo avanti». Il 68enne, da poco pensionato, è un uomo semplice, ma di una umanità infinita. Capace di dare una chiave di lettura diversa (e umana, appunto) all’ennesima, pesante, “prova” che gli ha posto davanti la vita. Quando iniziamo la nostra chiacchierata, Francesco è a spasso per il paese, con il suo cane: «Serve per sfogarmi un po’» dice sorridendo. Allora, partiamo…

Potenzoni, facciamo un passo indietro. Chi era Daniele?

«Daniele era un ragazzo come tutti. È nato senza nessun problema, anzi era molto intelligente. Frequentava la scuola con grandi frutti, ha vinto anche una borsa di studio. Poi ha fatto fino al quarto anno del liceo scientifico, ed è venuto a lavorare con me. Aveva tanti amici, frequentava l’oratorio… Insomma, educato, mai una parola fuori posto, sempre obbediente. Un ragazzo d’oro».

E poi?

«All’età di 18 anni, era a casa per pranzo, è uscito per venire a lavoro. Prima passava sempre dal bar, per comprare le sigarette e salutare gli amici. Quel giorno non arrivava più, lo aspettavamo e ci stavamo preoccupando. Allora ho chiamato mia moglie a casa e ho mandato Luca, l’altro mio figlio, a quel bar. Passano cinque minuti, torna: “Daniele non c’è”. Dopo una mezz’ora prendo la macchina e vado a vedere dov’era. Tutti hanno iniziato a cercarlo, ma non si trovava. Mi è venuto in mente di andare in una piazza del paese: l’ho visto seduto su una panchina, con la bici per terra, gli occhi spalancati e la bava che scendeva dalla bocca. Continuava a dire: “Vedo due soli, due lune”. Era in stato confusionale. Siamo subito andati dal dottore, ci ha consigliato uno psichiatra, ma nemmeno lui ci sapeva rispondere. Abbiamo girato tutta la Lombardia, ma ancora niente. Alla fine ho conosciuto un professore, meridionale come me, che mi ha spiegato: “Tuo figlio ha tratti di autismo e schizofrenia, è un caso raro. Non ci sono cure”. Tornati a casa eravamo scioccati, per due o tre anni abbiamo faticato a crederci. Poi siamo convinti e abbiamo iniziato a vivere. Dai 20 anni in poi, Daniele era a casa con noi, andavamo in ferie, girava in paese, andava a fare la spesa con sua mamma. Eravamo contenti».

Frequentava anche un centro?

«Sì, un centro per ragazzi con disabilità, stava mezza giornata e nel pomeriggio tornava a casa. Ha fatto 15 anni là, mi fidavo delle persone che stavano con lui. Poi un giorno mi chiamano: “Vuoi mandare tuo figlio a Roma, per vedere il Papa?”. Sono sempre stato restio alle gite, e dico: “No, meglio di no”. È iniziato un tira e molla: “Organizza tutto la Regione, ti puoi fidare” e mi riescono a convincere. Daniele, felicissimo, ha raccontato a tutto il paese che andava a vedere il Papa (sorride). Era euforico, aveva preparato con cura la valigia con sua mamma. La mattina della partenza lo accompagno alla stazione, e mi fermo ancora a parlare con un responsabile: “Mi raccomando, vi affido mio figlio”. Partono e arrivano a Roma, Daniele mi chiama da un telefono di un accompagnatore, non dal suo, perché lui i telefonini li buttava o li regalava alla gente. Era tutto a posto, e poi mi dice che il giorno dopo sarebbe andato a vedere il Papa».

Non arriverà mai a Piazza San Pietro…

«(Sospira) Il giorno dopo verso le 16.30, tornavo da Piacenza per lavoro, vedo il numero di Roma. Rispondo subito: “Daniele sta male?”. No, mi dicono, peggio: l’abbiamo perso. A quel punto lì, e ringrazio Dio, ho avuto la prontezza di fermarmi con il camion… mi si è gelato il sangue. Avviso a casa, e continuiamo a telefonare a Roma. La denuncia viene fatta solo alle 19, dopo ore dalla scomparsa, e l’allarme diramato dalla Polfer solo all’interno della stazione. Sbagliano a segnalare anche i vestiti, e a comunicare che era un ragazzo disabile. Così, nel giro di poco, Daniele sparisce nel nulla. Decidiamo subito di partire per Roma, per cercarlo, con 25 persone del paese. Giravamo dalla mattina alla sera, di lui neanche l’ombra. Io e Luca siamo stati tre mesi in ogni angolo della Capitale, ma niente. Da quel giorno lì non lo vediamo più (si ferma)».

E da quel giorno è partita la “macchina” della ricerca.

«Non abbiamo mai smesso di informare tutti: volantini, telegiornali, trasmissioni, radio, giornali. Ovunque. Io vado a Roma ogni mese, siamo alla ricerca, ma lo Stato è assente. E con Federica Sciarelli, nel nostro libro “Il caso Potenzoni”, raccontiamo tutto quello che può capitare a chi perde un figlio. Le istituzioni se ne sono lavate le mani, non si sono mai fatte vive. Solo volontari e amici ci stanno dando una mano. Per esempio, una signora di Dubai ha offerto la ricompensa per chi dovesse trovare Daniele. Pensate, fino a Dubai conoscono la sua storia. Ma non basta, serve che davvero tutti sappiano di questa vicenda. Sembra un capitolo senza fine, ma non ci fermiamo».

Ecco, come si vive, giorno dopo giorno, in questa incertezza?

«Non si vive, si sopravvive. Non auguro al peggior nemico quello che stiamo passando noi. Mia moglie si è ammalata: convive con la depressione e il diabete. Ma io continuo, non posso fermarmi. Anche gli altri due figli, Luca e Marco, ci aiutano. Quello che ci consola è la nascita di una nipotina, la guardo e dico: “Devo combattere e trovare lo zio, per lei”. Ma, credetemi, è dura. Anche io ho voglia di piangere, ma lo faccio solo quando non mi vede nessuno…».

Avete scritto anche una lettera al Papa. Vi ha risposto?

«Ne abbiamo mandate tante di lettere e inviti. Un incontro, ma anche solo una parola di conforto, l’avrei sperata e la spero sempre. Il Papa è un sant’uomo, chissà a quante cose deve pensare. Ma anche con questo non si risolverebbe il problema. La rabbia che ho è per lo Stato, e se riesco gli farò causa. Non sapere nulla di Daniele è pesante, ma lo è ancora di più sapendo che nessuno lo cerca: tanti poliziotti e carabinieri, che incontro a Roma, non sanno neanche chi è, e non hanno ricevuto incarichi dall’alto. Ma confidiamo sempre nelle brave persone».

E proprio da tante persone arrivano ogni settimana segnalazioni, spesso fuorvianti. Come le vive?

«Quando arrivano segnalazioni, telefonate e foto sono felice. Anche se non è Daniele, preferisco una notizia, che non avere nessuna traccia. Se nessuno ne parla, nessuno si ricorda di lui. Quando mi chiamano sono pronto a metterci sempre la faccia, ma sto attento a farmi illusioni. Ci ho fatto il callo, dopo sei anni e mezzo».

Secondo la sua famiglia, dov’è Daniele?

«Daniele è vivo, lo sentiamo. Non lo vediamo, e non lo sentiamo, in mezzo a una strada. Forse in qualche chiesa, o nella periferia di Roma, in campagna, che dà una mano nei campi. Oppure vive con una persona anziana, che magari non segue le vicende in tv, e che si sta prendendo cura di lui. Noi lo sentiamo vivo, non ci fermiamo e andremo avanti. Sempre».

Ha perdonato i responsabili che lo avevano in custodia?

«Io non sono nessuno per poter perdonare, non mi sento di parlare. Le cose che vorrei dire sono pesanti. Mi viene difficile perdonare… lo farà Dio, io non sono nessuno. Se hanno una coscienza chiederanno perdono al Signore. I processi sono terminati, il responsabile è stato assolto, ma un minimo di punizione ci voleva».

È arrabbiato con Dio?

«No, non sono arrabbiato. Dicevo: “Povero Daniele, non gli poteva capitare anche questo”. Dio ci ha messo di fronte a una prova. Prego sempre affinché gli dia una mano e lo protegga. Lui era sempre in chiesa, a sentire Messa o in oratorio. Non posso essere arrabbiato, perché Dio è buono, e non vuole il male di nessuno».

Si sente di lanciare un appello?

«L’appello che lancio a tutta la popolazione italiana, di dare un occhio in più quando si cammina. Adesso siamo distratti dai telefonini. Ma chissà, magari salendo su un pullman o una metro, ritrovi Daniele. È troppo importante, dateci una mano. Riportarlo a casa sarebbe una gioia per tutta l’Italia, e tutto il mondo».

Cosa direbbe a Daniele se lo avesse davanti?

«Mi verrebbe un colpo (sospira). L’abbraccerei e lo bacerei, con tutti quanti. Non gli chiederei niente, di dove è stato e con chi. Poi gli faremmo una festa grande in paese, come quelle che si fanno ai santi (sorride). Daniele, ti aspettiamo tanto…».

Alessandro Venticinque

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