Intervista esclusiva a Toni Capuozzo, storico inviato di guerra
Capuozzo, 73enne di Palmanova (Udine), è un volto noto del giornalismo, con alle spalle anni e anni di esperienza. Ha lavorato per la carta stampata, iniziando con “Lotta Continua”, proseguendo poi con “Reporter” ed “Epoca”. Poi è passato alla televisione, collaborando con i telegiornali Mediaset. Molti lo ricorderanno nel programma “Terra!”, curato e condotto dal giornalista friulano a partire dal 2000. Ma fino al 2013 è stato anche vicedirettore del Tg5. Nella nostra chiacchierata ci ha raccontato che non ama essere definito un “missionario”, ma un semplice inviato di guerra che per trent’anni ha seguito i conflitti da ogni parte del mondo (tra cui ex Jugoslavia, Somalia, Medio Oriente e Afghanistan).
E proprio nel trentennale dalla guerra nei Balcani, Capuozzo ha pubblicato “Balcania“, un libro che racconta i suoi anni da inviato nell’ex Jugoslavia. Racconta storie, anche personali, che sembrano così attuali di fronte alle immagini di questi giorni. Nell’intervista c’è un punto da cui siamo partiti. Questo libro, uscito il 17 febbraio, sottotitola “L’ultima guerra europea”. Sette giorni più tardi, il 24 febbraio, l’invasione russa in Ucraina. Perché la storia dell’uomo è fatta di guerra e di guerre. A volte ce ne accorgiamo, altre no. E anche Toni Capuozzo, uno di quelli che se n’è accorto tante volte, è rimasto senza parole di fronte a questo orrore. Un orrore che ci accompagna da cinque settimane. E non sembra avere fine.
Capuozzo, il suo ultimo libro “Balcania” (edito da Biblioteca dell’Immagine) è stato pubblicato il 17 marzo, sette giorni prima dell’invasione russa in Ucraina. Mi ha colpito il sottotitolo “L’ultima guerra europea”, a leggerlo oggi sembrerebbe anacronistico.
«Se dovessi darti una risposta furba, direi che il sottotitolo l’ha scelto l’editore (sorride). In realtà sfuggiva a lui, come a tutti, che potesse scoppiare un conflitto a breve. Però, di comune accordo, abbiamo deciso di lasciarlo, perché è come l’icona dell’illusione che i Balcani siano stati l’ultimo conato, rigurgito di violenza del Novecento. Ero convinto che non ci sarebbe stata l’invasione russa, ma con il trascorrere dei giorni e della guerra mi sono reso conto di come anche io mi fossi distratto. Questa guerra viene da molto lontano, e non solo da un confitto locale come quello del Donbass. Ma viene anche da una politica dell’Alleanza atlantica che è quella dell’espansione a Est, senza includere la Russia. Per tornare ai primi giorni di uscita del libro, in cui i Balcani erano ancora l’ultima guerra europea, ho avuto la sensazione che in qualche modo Putin fosse cascato in una trappola».
Per ora fermiamoci ai Balcani: che ricordi riporta nel libro?
«La guerra è orrenda, quindi i ricordi non possono che essere bruttissimi. Racconto la storia del manicomio di Pazaric, dove andai durante il conflitto. Un luogo dove, paradossalmente, musulmani bosniaci, serbi e croati convivevano in pace, salvo qualche scappellotto o dispetto. Appena uscivi dal manicomio, in cui era confinata la “follia”, cominciava la “ragione” e l’accoltellamento tra vicini di casa. Era un’oasi tremenda: mancavano medicinali e medici, mentre i pazienti morivano e venivano sepolti nel prato del manicomio stesso. Parlo anche dei giorni del massacro di Srebrenica, e dei luoghi in cui arrivavano donne, bambini e pochi anziani che scappavano da quell’inferno. Mi ricordo l’intervista a una ragazza che raccontava di migliaia di uomini presi e uccisi. Ci sembrava impossibile, ascoltavo quelle che credevo le esagerazioni di una giovane che ha visto cose brutte e le dipinge in tinte ancora peggiori. Quando siamo andati nel magazzino di Tuzla, dove venivano conservati i resti esumati dalle fosse comuni, le immagini sono diventate ancora peggiori rispetto a quei racconti. Quella guerra, in qualche modo, racconta la realtà dei conflitti di oggi, nella quale sono i civili a sopportare il fardello più pesante, non i combattenti. In questo senso, non è l’ultima guerra del vecchio secolo, ma annuncia le guerre “sporche” che sono venute dopo. Penso all’Afghanistan, alla Siria, alla Libia e, per ultima, all’Ucraina. Sono guerre che stanno segnando questo secolo».
Nel 1992, proprio durante la guerra, lei conosce Kemal, un bambino di pochi mesi finito sotto una bomba che gli uccide la madre e gli strappa una gamba. Per salvarlo, lei e una sua collega decidete di portarlo in Italia, a vostro rischio e pericolo, nascondendolo dentro a un giubbotto antiproiettile e trasportandolo clandestinamente da Sarajevo a Trieste. Kemal rimane con lei anche dopo le cure, e per cinque anni diventa il suo terzo “figlio”. Poi il tribunale dei minori lo riaffida al padre naturale, dopo la guerra. Troveremo anche questa bellissima storia nel suo libro?
«Sì, ma verrà solo sfiorata, sono sempre stato refrattario a parlare di questa vicenda. Non è agrodolce, ma è piuttosto dura, anche per ragioni personali. Kemal ha vissuto con la mia famiglia, parlava italiano, ha fatto l’asilo e le vacanze nella casa al mare. Alla vigilia dei 6 anni poi è dovuto rientrare in Bosnia ed è stato un trauma per un bambino di quell’età: non tanto perché è dovuto tornare dai suoi parenti, ma perché ha trovato una città distrutta e diversa dall’Italia in cui stava crescendo. È stata dura… In più, quando aveva 24 anni, per un tumore si è dovuto operare a Sarajevo: ha avuto una metastasi, così l’ho portato di nuovo in Italia ed è stato sottoposto a quattro operazioni non di poco conto. Se l’è cavata per la bravura dei medici italiani e perché è un ragazzo forte. Mi viene da dire: non è possibile che tutte le sfighe del mondo si concentrino su una persona innocente. Però, anche lui è la dimostrazione che le guerre si fanno e le conseguenze si trascinano per anni e anni. Fin quando c’è qualcuno vivo che ha visto quelle scene, le conseguenze continuano a lasciare il segno. Le case si ricostruiscono, i muri si intonacano, le ferite no. Sicuramente nel conflitto dei Balcani, ma anche in questo, perché ucraini e russi si assomigliano, la guerra sta scavando dei fossati di odio difficili da colmare».
Andrà in onda anche un reportage su Focus, ad aprile, sul trentennale dell’assedio a Sarajevo. Un lavoro di questo tipo oggi, con la guerra in corso, ha tutto un altro sapore.
«Il mio scopo, non dichiarato, era di fare un documento contro la guerra. In guerra non vince nessuno. Anche oggi, forse perché non conosciamo da vicino le guerre, abbiamo la tendenza a immedesimarci fino al punto di fare il tifo, di aspirare alla vittoria dell’uno o dell’altro. Da noi la stragrande maggioranza auspica il trionfo di Zelensky, che è fuor di ogni dubbio l’aggredito, mentre Putin è l’aggressore. E questo non è opinabile. Ma la mia intenzione è che da qualunque parte la si voglia prendere, a ben guardare nel lungo periodo in guerra tutti escono sconfitti. Non c’è vittoria alata, Resistenza con la “r” maiuscola, eroismo che tenga. Anzi, gli eroi diventano monumenti dimenticati. I vuoti creati dalla guerra non si riempiono più. Sia chiaro, io non sono un pacifista, non sono mai stato alle manifestazioni con la bandiera della pace (sorride), e credo che ci siano guerre che non puoi fare a meno di combattere. Fossi ucraino molto probabilmente sarei con un fucile sulle barricate a proteggere il mio Paese. Ma da cittadino europeo sono assillato dall’idea di fermare tutto questo massacro, non di accompagnare alla vittoria con gli slogan e con le armi l’uno o l’altro. Ma come vediamo, non ci sono leader mondiali, a parte il Papa, che hanno l’autorità morale, politica, economica e la volontà di portare la pace. Il supporto migliore sarebbe quello di investire tutto nella diplomazia. Concreta, non di appello».
Ha citato il Papa, che ha detto: «Una pazzia l’aumento della spesa per le armi al 2% del Pil, mi sono vergognato». Su questo tema come ne esce l’Italia? È stato corretto inviare armi in Ucraina?
«Se tu mandi armi, di fatto, ti schieri e non puoi fare il mediatore. Paradossalmente anche la Turchia, che prima della guerra ha venduto armi, ha provato a mediare senza successo. Anche i turchi sono membri della Nato e non sta scritto che tradisci l’Alleanza se non mandi le armi. Occorreva dire: “Siamo dalla parte dell’aggredito, ma vogliamo riservarci un ruolo di mediazione”. È chiaro che se il nostro ministro degli Esteri (Luigi Di Maio, ndr) dice che Putin è una bestia, sarà poi molto difficile assumersi l’onere e l’onore di mediare. Ripeto, questo non vuol dire essere equidistanti, ma vuol dire lavorare per la pace. E vale anche per l’opinione pubblica. Noi siamo seduti sul divano a giudicare: “Ha ragione questo, ha ragione quell’altro… Questo è buono, questo è cattivo…”. Diamo il voto, come se fossimo i giudici di “X Factor”. No, questa è una guerra e va fermata. Avremmo dovuto comportarci così, invece…».
Qual è l’aspetto della guerra che le fa più paura?
«Il dopoguerra. Noi viviamo i conflitti da lontano, non siamo direttamente coinvolti. Stavolta siamo coinvolti economicamente, oltre che dal punto di vista della sensibilità, che non so quanto durerà. Non ci farà male il cuore, ma il portafoglio. Il panorama che scaturisce da ogni guerra è devastato per generazioni. Non le case, non le strutture produttive, non le infrastrutture, ma l’anima della gente. Adesso vedo sui social, ma anche sui grandi giornali, parlare di resistenza. Io ho visto da vicino i conflitti in questi anni e mi faccio diverse domande. Una volta abbattuto Gheddafi, che ne è stato della Libia? Una volta abbattuto Saddam Hussein, che non era uno stinco di santo, che ne è stato dell’Iraq? Dopo aver combattuto i talebani, ed essersene andati via dall’Afghanistan, che ne è delle donne di quel Paese? E una volta che abbiamo tentato di rimuovere il tiranno Assad, che ne è stato della Siria? Dovete dirmi qual è lo Stato che è uscito migliorato dalla guerra. Io non ne ho visto nessuno che ha lasciato il mondo migliore di come lo aveva trovato».
E c’è chi pensa che l’unica soluzione sia la caduta di Putin.
«Chiaro, se l’invasione si fermasse sarebbe una gioia per tutti. Ma quelli che hanno augurato la morte di Putin si sono poi chiesti chi sarà il suo sostituto? Auguriamoci che sia una transizione pacifica e che avvicini la Russia a qualcosa che assomigli alla democrazia. Ma quella non è la Libia, ci sono migliaia di bombe atomiche in Russia. E se va al comando un altro peggiore di Putin, siamo punto e a capo. Va bene, i tifosi in curva nord possono anche fare la “ola”, ma serve una strategia che, per prima cosa, preveda la fine di questa guerra con un accordo diplomatico».
L’uomo imparerà mai dai suoi errori?
«Io temo di no. Da lontano abbiamo osservato, distrattamente, sentendo lontano le bombe, senza maturare le lezioni che avremmo dovuto imparare. A volte, siamo vissuti nell’illusione di essere in una pubblicità di Benetton in cui siamo tutti uguali, ci si dà la mano, non ci sono razzismi, non c’è odio. Una sorta di “arcobalenizzazione” della vita, come se non ci fossero movimenti migratori, squilibri demografici ed economici, tensioni etniche. Poi scoppia una guerra e ci spaventiamo perché ci sono le atomiche, perché le bollette raddoppiano, perché il grano diventa un problema. Così ci accorgiamo che non viviamo in quel villaggio globale così tranquillo come ci sembrava. Credo che il problema peggiore non sia tanto la sorpresa amara del comune cittadino, ma il fatto che, se uno guardasse dall’alto, dovrebbe dire che la nazione più moderata è la Cina».
Un Paese che non spicca per la sua democrazia.
«Però ha tenuto i nervi saldi, ha cercato di mantenere buoni rapporti con l’Ucraina e con la Russia. Non so fino a che punto sia arrivato lo sdegno morale della guerra, per uno Stato piuttosto “freddo”, ma sicuramente ha sentito una forte turbativa di mercato. La Cina è stata moderata, e giocherà un ruolo chiave per trovare una soluzione».
Gli altri, invece?
«Ammettiamo che tutto si fermi domani, facciamo una fotografia sullo stato delle cose. L’Ucraina è un Paese diviso che deve leccarsi le ferite. Avrà la consolazione di ingenti aiuti dagli Stati Uniti e dall’Unione europea per ricostruire, ma resterà divisa peggio di prima, anche perché non credo che i russi molleranno la costa. Vedremo l’Ucraina come una specie di Cipro nel cuore dell’Est Europa. La Russia ha pagato caro questa invasione: conterà i morti, ma soprattutto il dissenso globale e interno. L’Europa è diventata una versione civile della Nato: si riscopre più unita, ma pagherà il gas il 30% in più. Gli unici che si possono dire soddisfatti sono gli Stati Uniti».
Perché?
«Beh, possono cantare vittoria perché hanno “salvato” la dirigenza ucraina, non hanno perso uomini, dopo essere usciti barcollanti dall’Afghanistan. Inoltre, hanno verificato che la Russia è molto meno forte di quanto sembrava dal punto di vista militare. Gli Stati Uniti hanno dato una lezione a Putin e hanno riportato all’ordine l’Europa. Che ora si sente molto più coperta stando sotto una Nato “americana”».
Capuozzo, che cosa ha significato per lei fare l’inviato nelle zone di guerra?
«Per me è stata una passione, non una missione. Non mi sono mai sentito un missionario, ma un semplice inviato speciale. E senza vittimismi, perché non te lo ordina il medico di andare a raccontare una guerra. Non è neanche senso del dovere, vai perché è la cosa che ti pare di fare bene, è il tuo mestiere, sei curioso di vedere come va a finire. Vai perché hai scelto di andare».
Però, anche tra i giornalisti, c’è chi rischia la pelle…
«Non mi è mai piaciuto neanche il discorso del “rischiare la pelle”. Ripeto, nessuno è obbligato ad andare al fronte. Tutti hanno il biglietto di ritorno in tasca, perché non hai i tuoi figli che vivono in quel posto, non c’è la tua ragazza o tua moglie. Sei a fare il tuo mestiere, non ti obbliga nessuno. È una retorica che non mi va, in nessun caso. Sono grato a tutti quelli che fanno questo lavoro: sono degli occhi che ci raccontano dei pezzetti di realtà, uno sta a sentire tutti quanti e cerca di comporre un mosaico che racconti la realtà. Se c’è una retorica accettabile è solo quando un giornalista, al fronte, ci resta per sempre».
E sono diverse le vittime, anche in questo conflitto ucraino.
«Sì, e bisogna ricordarli con forza. Su tutti penso al poco citato Andy Rocchelli, fotoreporter morto nel 2014, durante la guerra in Donbass, sotto armi ucraine. Non voglio usare parole grosse, ma ho l’impressione che venga ricordato poco perché è stato ucciso dai “buoni”, come se fosse morto dalla parte sbagliata. Era un giovane fotografo bravo, generoso, che raccontava la realtà. Perché nessuno l’ha ricordato? Anche la retorica ha una doppia morale, ricordi le cose che vanno bene e tornano utili alla tua narrazione. Per il resto, fai finta di non vedere. Anche questo fa parte dei crudeli controsensi che accadono in guerra».
Alessandro Venticinque
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