Parole di pace da un luogo di guerra: l’intervista a don Jabloyan dalla Siria

Parole di pace da un luogo di guerra

 

Venerdì 13 giugno, nella parrocchia Cuore Immacolato di Maria, si è tenuta la Veglia di preghiera per la pace promossa dalla Consulta diocesana delle aggregazioni laicali e guidata dal Vescovo monsignor Guido Gallese. Durante la serata, in collegamento, è intervenuto don Pier Jabloyan, direttore della Casa salesiana di Aleppo in Siria. Qui sotto vi riportiamo un estratto della sua testimonianza.

«Saluto monsignor Gallese, la comunità diocesana, tutti i laici che hanno preparato questo evento. Ed essendo salesiano, saluto tutti i salesiani presenti. Il vostro momento di preghiera è profetico, perché in questi minuti centinaia di missili sono partiti da Israele all’Iran, e viceversa. 

È un momento molto critico, e la vostra preghiera dovete intensificarla, perché adesso c’è un “terremoto”, ma questo sembra molto forte. La situazione qui, in Siria, dopo anni di scontri, è cambiata: è caduto il regime, adesso c’è una nuova impostazione nel governo, con un marchio più islamico. Ma questo non ci spaventa tanto, noi come Chiesa, come cristiani e cittadini di questa terra siamo spaventati da questa situazione? Sì, come per ogni cambiamento forte. Ma, nonostante questo, cerchiamo di avere speranza, guardando al futuro con un occhio diverso, dopo 50 anni di regime molto forte. 

Adesso noi speriamo di vivere in pace e in prosperità, guardando gli altri senza discriminazioni per la fede o provenienza sociale. Purtroppo, dopo questi 15 anni di guerra, coloro che hanno subito di più sono i ragazzi giovani. Noi ad Aleppo abbiamo un oratorio grande, con circa 1.300 persone, ogni giorno offriamo proposte formative, e purtroppo non abbiamo giovani adulti: tanti sono andati via scappando dal servizio militare, altri sono preoccupati per il futuro. E questo ci preoccupa. Qui la questione della pace è legata alla comprensione del senso della vita. La pace non è una questione di assenza di guerra, e lo dico da qua, un luogo che ha vissuto la guerra. La questione della pace è una questione legata alla pace interiore, all’accettazione della vita come un dono. Vedo tanti giovani vivere, anche sotto i bombardamenti, con serenità e una pace contagiosa. Credo che il mondo abbia bisogno di questa gente. La crisi siriana comunque continua, e speriamo che la situazione migliori sempre di più. Ora non c’è più spazio per esperimenti: “Vediamo se questa persona o questo governo va bene”. No, qui non abbiamo più forze. Ma allo stesso tempo, quest’anno, è difficile vivere la speranza. È comodo vivere nella tranquillità e parlare di fede, ma quando la situazione diventa più intensa, e non parlo solo di guerra, ma anche quando nelle nostre famiglie ci sono situazioni dure e di scontri, ecco lì si vive quella speranza. Siamo chiamati a mettere in pratica l’insegnamento del Signore. Nelle Letture che abbiamo sentito, Gesù dice ai discepoli: “Pace a voi”. E quando Lui va via, inizia la persecuzione a tutta la chiesa. Allora cosa intendeva Gesù, forse intendeva una pace interiore: nonostante il caos esterno, può maturare una pace interiore e condividerla con gli altri. 

Oggi in Medio Oriente l’odio divora la terra e la gente, siamo desiderosi di vivere la pace serena. Alla fine la gente dice: “Prendete tutto quello che volete, soldi o petrolio. Ma lasciateci in pace, vogliamo gustare la vita”. Qui ogni momento è buono per fare esperienza tra dolore, croce, speranza e risurrezione. 

Dio dov’è, in tutto questo? È una difficile domanda. Ci sono momenti in cui sei arrabbiato con Dio, gli chiedi: “O Signore, tu sei di questa terra, come mai permetti questo?”. Io credo che nei momenti di conflitto, il Signore è presente ancora di più. Nei piccoli gesti, concreti, di ogni giorno. Nelle piccole resurrezioni che noi, come cristiani, siamo chiamati a vivere e vedere. Quando parliamo del Triduo pasquale ci piace guardare sempre la risurrezione, ma non va bene, perché prima ci sono la croce e la morte. 

La nostra esistenza è tra la vita e la morte, e tutti noi portiamo delle croci. Quel segno di morte però deve diventare una chiave per la vita, affinché si possa incontrare il Signore. Credo che ciascuno di noi ha un compito di essere uomo o donna di pace. Noi siamo abituati a insegnare ai bambini di non giudicare di volersi bene, ma noi adulti siamo i primi a fare la guerra. C’è una mentalità nella storia: se vuoi la pace, bisogna fare la guerra. No, non è così. Bisogna partire dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Cominciare dalla nostra casa, dalla nostra famiglia. Immaginate i bambini che vedono voi come trattate bene gli altri, cresceranno uomini di dialogo e di porte aperte. L’unica opportunità che unisce è guardare al Signore e guardare all’uomo, nonostante le diversità delle nostre comunità. Fare la pace è aprire un dialogo e accettare l’altro. 

Io credo che ci sia speranza per la pace nel mondo! La speranza è per ciascuno di noi, ci educa. Chi va al lavoro ogni giorno, chi dice Messa o chi lavora i campi ha già gli occhi rivolti verso la speranza. Non possiamo non essere ottimisti se siamo cristiani. Abbiamo speranza? Sì, se non siamo noi a vivere questa pace, non dobbiamo avere speranza che gli altri la vivano. Noi dobbiamo fare la nostra parte per il futuro»

(Testo raccolto da Alessandro Venticinque)

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