Intervista a Marco Bologna, presidente della Croce Rossa alessandrina
Marco Bologna, classe 1953, presidente della Croce Rossa alessandrina e ai vertici della Protezione civile del nostro territorio, è una persona di poche parole e di tanti fatti. Il suo è uno dei volti più noti della città (e non solo): quando c’è bisogno, Marco (insieme con quelli che collaborano con lui) risponde sempre. In vista del primo Martedì di Quaresima, il 14 marzo alle 21 all’auditorium San Baudolino con Cecilia Crescioli (nella foto in alto), segretaria generale della Croce Rossa italiana, gli abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa di sé e del suo impegno.
Bologna, quando ha deciso di dedicarsi alla sua comunità?
«Da sindaco di Piovera (dal 1985 al 2004, ndr) ho vissuto il momento più drammatico durante l’alluvione del ’94. A un certo punto mi sono accorto che quando ho chiesto alla gente di fare le cose che dicevo, la gente mi dava retta. Abbiamo costruito dei muri di terra intorno al paese, lo abbiamo salvato dalla piena del Tanaro che aveva distrutto l’argine: lavoravamo insieme, c’era fiducia. Giovani e meno giovani. Ma…».
Ma?
«Ma in quel periodo, in paese, girava la droga. Io mi sono trovato ad avere parecchi ragazzi, ma parecchi, che si trovarono a essere “sedotti” da questa voglia. Eroina, roba pesante… era portata da alcune persone che venivano da Milano. Di colpo lo sport, che era un veicolo importante, non bastava più. Allora ci siamo inventati la Protezione civile, per intercettare quei ragazzi fermi sul muretto a fare niente. Grazie a questa iniziativa, molti si sono salvati da questa “sirena” mortale: quando indossavano la divisa, non si avvicinavano ad altre situazioni pericolose. La divisa è fondamentale (sorride): c’è un volontariato discreto, anche molto bello, che però a volte diventa anonimo o semplicemente non si vede. Invece è importante che si veda, per sé e per gli altri».
Qual è il “motore” che spinge al volontariato?
«Il motore è la risposta che ti dà la comunità: i giovani, gli amici, gli anziani… E poi è importante valorizzare il volontariato, dandogli una finalità, uno scopo, un modo di essere. Io ho usato alcuni meccanismi che mi avevano insegnato in collegio, al “Santa Chiara” (oggi collegio universitario, ndr), quando studiavo ad Alessandria. In primo luogo, la disciplina. Ero un ragazzo molto vivace (sorride). E poi l’esempio. Ma lì ho imparato anche a fare comunità. Se sei isolato, non vai da nessuna parte».
Dopo la Protezione civile, per lei è venuta la Croce Rossa.
«Esatto. Abbiamo costituito la Croce Rossa pensando agli anziani e ai più deboli. Paradossalmente, come Protezione civile eravamo in grado di affrontare qualunque calamità… ma se qualcuno ci chiedeva di essere portato in ospedale non avevamo il mezzo per farlo».
E così?
«Le divise della Protezione civile erano più o meno simili a quelle della Croce Rossa, cambiava solo lo stemma. Abbiamo fatto una colletta in paese per trovare i soldi per l’ambulanza, e nel giro di sei mesi l’abbiamo comprata».
Un paese unito, Piovera.
«Dal conte Calvi di Bergolo a don Pietro Gho, il parroco del paese, tutti avevano collaborato e prestato il loro servizio. Questo è stato un fortissimo esempio. Oggi invece si sta più sui social che in paese con gli altri, i giovani hanno altre ambizioni».
Ecco, i giovani…
«Quando li vedo entrare in Croce Rossa, mi chiedo chi glielo fa fare».
Che risposta si dà?
«Una risposta difficile. Tu sei l’uomo del soccorso. Devi sapere cosa fai, devi essere addestrato. Devi studiare, non perdere la testa, avere i nervi saldi. Un compito da persona adulta, matura… ma il mondo è cambiato, sono cambiate anche le risposte della gente. Probabilmente ne parlerà martedì prossimo la nostra responsabile nazionale, Cecilia Crescioli (vedi locandina a pagina 7, ndr): “Perché non si deve sparare sulla Croce Rossa” è un titolo azzeccatissimo».
Davvero qualcuno vuole “sparare sulla Croce Rossa”?
«Trent’anni fa la gente ti ringraziava quando ti vedeva arrivare. Oggi rischi la denuncia, se chi ti chiama si convince che sei in ritardo… L’approccio è cambiato. Siamo abituati ad alzare il telefono e ad avere subito quello che vogliamo, tutto ci è dovuto. Oggi l’ambulanza arriva, si ferma e “stabilizza” il paziente: il medico inizia a prestare le prime cure proprio in quel momento, che è determinante e può salvare la vita. A volte le persone non lo capiscono, si arrabbiano, ti urlano di andare subito in ospedale. Ed è già successo che qualcuno prenda a calci l’ambulanza».
Immagino che anche durante la pandemia del 2020 sia stata durissima.
«In quel caso ci siamo trovati a dover affrontare la realtà, come si dice, “a mani nude”. Noi eravamo l’avamposto, perché entravamo nelle case. Vede, i nostri ragazzi avrebbero potuto dire: “No, basta, non ce la facciamo… dicono a tutti di non uscire, non usciamo neanche noi. Al massimo, cantiamo dal balcone”. Se si fossero rifiutati di venire, sarebbe stata dura».
E invece?
«Invece abbiamo avuto il raddoppio di presenze. Si sono presentati in tanti, orgogliosi di quel simbolo di soccorso, il più conosciuto al mondo. Non venivano da me, da Marco Bologna; venivano alla Croce Rossa. Per non parlare dell’accoglienza ai migranti. Penso ai bambini siriani che, su richiesta dell’allora prefetto di Alessandria Romilda Tafuri, abbiamo accolto nel chiostro di Santa Maria di Castello. Un posto tranquillo, dove siamo riusciti a ricreare un minimo di “mondo” non sconvolto dalla guerra».
Come avete fatto?
«Con i bambini abbiamo usato un trucchetto che mi ha svelato mia moglie, che fa l’insegnante. Abbiamo usato le bolle di sapone! I piccoli rimanevano estasiati, poi provavano a farle loro. A quelli che non ci riuscivano lasciavamo dei fogli e una matita. E quando erano un po’ più tranquilli cominciavano a disegnare. Disegni terribili, di morte e di guerra (si commuove)… Abbiamo visto emergere l’umanità, che è uno dei principi fondativi della Croce Rossa».
Bologna, come sta la Croce Rossa alessandrina?
«La nostra Croce Rossa vive un momento di trasformazione, perché in Piemonte la natura del soccorso è destinata a cambiare. Io credo stia bene, anche se dal punto di vista della struttura si tende sempre a fare del soccorso l’anello debole della catena. Nel senso che la Regione a noi chiede, non pretende, ma chiede i servizi, e i costi sono sempre al minimo. Le ambulanze noi ce le dobbiamo comprare… Posso dire grazie al gruppo Gavio, che ne ha donate 15 durante la pandemia, poi ripartite sul territorio provinciale. Sono mezzi da quasi 100 mila euro l’uno, eh… E devo dire grazie anche ai volontari: se non ci fossero chiuderemmo domani, per una questione di costi. Ma su queste cose non si può proprio andare al risparmio».
Il suo invito ad avvicinarsi alla Croce Rossa?
«Io dico solo una cosa: attenzione, perché il destino nostro, delle nostre famiglie, in questo momento è nelle nostre mani. Se ci daremo da fare il futuro sarà migliore. L’alternativa è l’egoismo, rimanere ognuno a casa propria. Il compito della Croce Rossa è il soccorso, e non ci tireremo indietro, anche se abbiamo bisogno di forze nuove. Che arriveranno: impegnare un po’ del proprio tempo per gli altri è una scelta di civiltà».
Andrea Antonuccio