“Il miracolo della Chiesa è di sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie”. Così si esprimeva alcuni anni fa, con ironia, l’allora card. Ratzinger, a cui faceva eco la sagacia di un altro cardinale teologo: “Nella messa, la Chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia, per invitarci a credere nonostante ciò che abbiamo ascoltato!” (T. Spidlik).
Al di là delle battute da preti, se è vero che la comunicazione, da sempre, è il terreno su cui si gioca l’incontro tra gli uomini, per la Chiesa non può esserlo di meno. È dunque inevitabile dover ripensare senza timori anche la comunicazione ecclesiale; e questo vale soprattutto per la “predica”, luogo per eccellenza della comunicazione della fede nelle nostre parrocchie.
“Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente” insiste papa Francesco, che d’altro canto in questi anni ci ha abituati ad uno stile di predicazione capace di diffondere la Parola con discorsi semplici e immagini vivaci. L’importanza del commento liturgico alla Parola di Dio (l’“omelia” appunto, dal verbo greco “omiléin”, “conversare familiarmente”) è indiscutibile e ne sono conferma le quasi centomila omelie che ogni domenica e feste comandate vengono ascoltate da più di sette milioni di fedeli solo in Italia.
Questa opportunità di ascolto domenicale della Parola rimane ancora, per molti fedeli, l’unico momento di nutrimento per la propria fede, a cui va aggiunto il fatto che in occasione di funerali e matrimoni sono presenti spesso molte persone non praticanti, e dunque l’omelia rimane un’occasione unica di annuncio per la Chiesa, anche ai cosiddetti “lontani”. “Se l’omelia non funziona, scriveva il card. Martini, la luce della Parola non arriva, e la casa resta al buio”. L’esperienza della Chiesa dopo il concilio Vaticano II e l’esempio di pastori grandi (nel nostro piccolo possiamo ricordare lo stile e la parola ispirata di mons. Charrier) ci insegnano così che l’omelia non può essere un’erudita conferenza né un comizio politico, non è un discorso difensivo di verità dottrinali né un fervorino moralistico infarcito di luoghi comuni, non deve essere una lezione di filologia biblica ma neanche un elenco di avvisi parrocchiali.
La spiegazione, invece, deve fare riferimento ai testi biblici, per attualizzarli nella vita di chi ascolta e rendere più facile, per tutti, cogliere la presenza del Signore che si affianca a ciascuno per riscaldare il cuore e illuminare la via. Una presenza vera e “reale”, sacramentale, quella di Cristo nella sua Parola, non meno che nel pane e nel vino resi suo corpo e suo sangue. “Oggi si è adempiuta questa Parola che voi avete ascoltato” (Lc 4, 21) proclama Gesù dopo avere letto la Scrittura (è la prima omelia della storia!) e questo dovrebbe essere il centro di ogni predicazione: le promesse di Dio si realizzano nel momento in cui la Parola è proclamata e ascoltata. Ogni omelia dovrebbe avere la sola preoccupazione di annunciare questa verità. Il buon predicatore, se esiste, può così aiutare a comprendere che gli avvenimenti e verbi delle letture bibliche potrebbero essere coniugati al tempo presente. Le persone a cui Gesù duemila anni fa parlava sono quelle dell’assemblea che oggi celebra, le mani con cui toccava i malati continuano oggi a portare la salvezza, le parole che lui pronunciava sono le stesse che oggi l’assemblea ascolta. “Oggi si è adempiuta questa Parola che voi avete ascolta- to” e l’omelia deve sempre evidenziare questa attualità.
Illuminare e riscaldare possono essere così i due compiti che quali cano la predicazione. Illuminare la Parola di Dio perché di- venti vera per le donne e gli uomini di oggi, spezzarla e farla risuonare perché possa riscaldarne il cuore.
Dio stesso, infatti, dichiara che la Parola uscita dalla sua bocca non ritorna mai a lui “senza effetto”, senza aver operato ciò che lui desidera (Is 55,11). È una Parola che plasma in modo nuovo la vita di chi la ascolta, una Pa- rola “performativa” quella di Dio, più che “informativa”.
S. T.