C’è da ringraziare la Chiesa che in questi giorni ci invita non soltanto a ricordarci di tutti i nostri fratelli defunti con gesti concreti di fede e di affetto, ma anche e soprattutto ci guida a riflettere sul “mistero” della morte.
La nostra società, oggi, tende a farci dimenticare la realtà della morte, la chiude quasi esclusivamente negli ospedali, la sottrae con vergogna agli occhi degli altri. È forse il senso di colpa di una cultura che, pur con tutto l’immenso progresso che è riuscita a realizzare, vede che la morte persevera di fronte a noi, invincibile. Si pensa, forse, che finché la morte non sarà cancellata, tutto il nostro progresso sarà un’illusione: c’è, alla fine, qualcosa capace di mandare in frantumi tutte le nostre sicurezze, le nostre conquiste e davanti a questa situazione di impotenza la nostra società preferisce chiudere gli occhi e fingere che la morte non esista.
Noi tutti siamo quotidianamente spettatori (e coinvolti) nel dramma della fine della vita e la Chiesa, nel Concilio Vaticano II usa parole efficacissime per esprimere questa situazione: “In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore” (Gaudium et spes, 18).
Così, se per chi non crede, la morte è la fine di tutto, l’annientamento, o un salto nel buio, non è da pensare che i credenti guardino con indifferenza alla morte. Anche il cristiano “è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male
attraverso molte tribolazioni, e dal subire la morte” (GS, 22). Per questo la Chiesa, mentre condivide con tutti gli uomini le gioie e i dolori, non si stanca mai di annunciare il Signore via, verità e vita e la sua promessa: “Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,40).
È ancora il Concilio che ci aiuta a capire il senso di questi giorni e il modo di guardare da cristiani al mistero della morte. Ci è
ricordato, ad esempio, che anche la celebrazione dei funerali deve esprimere “più apertamente l’indole pasquale della morte” (Sacrosanctum Concilium, 81) e il riferimento costante alla Pasqua di Cristo Risorto.
Perché questo? Perché la Pasqua è al centro di tutta la storia della salvezza, quell’opera compiuta da Dio per gli uomini, fin dalla creazione e poi nel suo Figlio fatto uomo e risorto per noi. Proprio dal mistero grande della morte e risurrezione di Cristo deve
trarre ispirazione tutta la vita dei credenti, anche di fronte al dolore e alla morte. Perché, ci ricorda S. Paolo, nel disegno di Dio, Cristo è “il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29), “il primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,19): è questo il destino a cui anche noi siamo chiamati.
Ogni domenica, nella celebrazione eucaristica, si rende presente e vero per noi quel sacramento che ci unisce a Dio nel suo Figlio, vincitore del peccato e della morte.
A lui, dunque, che muore e risorge per noi, alle sue parole e gesti pieni di amore, dobbiamo guardare, per imparare il senso del vivere e anche del morire, per i fratelli che ci hanno preceduti e per noi che siamo in cammino.
È una grande affermazione di fede quella che noi facciamo in questi giorni, pregando per i nostri fratelli defunti e visitando le loro tombe: più che farci rivivere il sentimento doloroso di una “separazione”, siamo infatti richiamati al senso di una “comunione” tra noi “pellegrini sulla terra”, quelli che “compiuta questa vita si purificano ancora” e quelli che già “godono
della gloria, contemplando Dio uno e trino, quale egli è” (Lumen gentium, 49), una comunione che neanche la morte può spezzare.
Stefano Tessaglia