Eccellenza, nel suo incontro con i vescovi del Perù papa Francesco ha spiegato che bisogna “imparare un linguaggio totalmente nuovo com’è quello digitale, per fare un esempio. Conoscere il linguaggio attuale dei nostri giovani, delle nostre famiglie, dei bambini…”. Lei a che punto è?
«Io sono a un punto strano. Mi pare di conoscere abbastanza il linguaggio digitale e come ben si sa sono molto propenso a queste innovazioni. A suo tempo sono stato tra i primi sacerdoti a parlare nelle chat di internet, avevo sviluppato un server per la messaggistica a tema prima che internet prendesse campo, affiliato a una rete di server per lo scambio digitale. Quindi da questo punto di vista sono stato sempre piuttosto attento. Devo anche dire che non avverto tutto questo disagio che sento presentare in ambienti educativi, come la scuola, riguardo ai giovani e al loro uso del telefono. Nell’incontro con i giovani non mi capita di trovarli “inebetiti” dal digitale in modo totalmente supino come vengono descritti. Può darsi che in presenza di proposte particolarmente “noiose” abbiano sostituito con il cellulare la battaglia navale o le gare di Formula uno sul foglio a quadretti, ma non li trovo più mortificanti delle distrazioni che noi avevamo. Internet dà grandissime opportunità, assolutamente impensabili rispetto a una volta. Tutto sta a farne buon uso e a capire che le relazioni virtuali devono essere un supporto di una relazione reale».
A Lima il Papa ha detto che «il cuore non si può “photoshoppare”, perché è lì che si gioca l’amore vero, è lì che si gioca la felicità». Perché secondo lei Francesco usa queste metafore, a prima vista molto lontane dal linguaggio normale dei sacerdoti (nelle omelie, per esempio)?
«Credo che usi queste metafore per far capire che la realtà della vita richiede un atteggiamento di verità, e lo fa esprimendolo attraverso concetti quotidiani. In un’epoca in cui molti sul proprio profilo presentano una immagine “photoshoppata” di se stessi, il Papa richiama all’importanza della verità del proprio cuore e delle relazioni che scaturiscono da esso. Una volta si usavano immagini diverse. Mi viene in mente Suor Elvira: “Non bisogna portare maschere”; o padre Gasparino: “Bisogna passare sotto l’arco della verità”. In ogni caso il concetto sotteso è lo stesso: è necessario essere veri, presentarsi così come si è. Gesù diceva: “Sia invece il vostro parlare: sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno”».
Quanto è importante la comunicazione nella pastorale di una diocesi?
«È molto importante. Anche qui, non per farci apparire diversi da quello che siamo ma per trasmettere agli altri quella gioia di un incontro che viviamo, come dice san Giovanni: “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunioni con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena” (1Gv 1, 3-4)».
Rimanendo sul tema della comunicazione, Lei che cosa ha imparato (e sta imparando) da questo Pontefice?
«Il nostro Papa si contraddistingue per un atteggiamento veramente semplice nei confronti della comunicazione, un atteggiamento che dai comunicatori è preso per grande capacità comunicativa ma che in realtà altro non è che il frutto di un prolungato lavoro su di sé al fine di essere quello che si è, senza infingimenti. Questo stile di vita, tenuto per anni, produce una capacità di comunicazione molto semplice ed efficace. Chi intercetta i suoi messaggi coglie nel subconscio la profonda verità e onestà di ciò che viene comunicato. E questo, insieme con la semplicità della modalità, fornisce una incisività fuori del comune».
Come si possono comunicare le verità della fede, oggi?
«Vivendole. Oggi come ieri. La fede è qualcosa che deve segnare la nostra personale esistenza. È questo segno scritto nelle nostre vite la più efficace comunicazione delle verità della fede».
A cura di Carlotta Testa