Dal 2008, anno di inizio della crisi finanziaria, l’Italia ha recuperato 700mila posti di lavoro ma ha perso 1,3 miliardi di ore lavorate, ciò significa che sono aumentati a dismisura i lavori part time e precari. Qualchedato in più: nel 2017 il 74% dei nuovi occupati è a tempo determinato e di questi il 60% ha lavorato per meno di 3 mesi, mentre 1 contratto su 3 è durato per soli 3 giorni. Il lavoro c’è, ma l’eccesso di domanda ha contribuito a creare una guerra al ribasso tale che i datori di lavoro se ne approfittano e sottopagano gli occupati. Magistrati onorari a meno di 1000 euro al mese, avvocati a 600 euro, professori universitari a 3,60 euro l’ora, senza tutele, senza ferie e senza pensione. E’ la cosiddetta “gig economy”, l’economia dei lavoretti, legata al mondo del digitale ed emblema del precariato moderno che, nonostante offra possibilità di impiego immediato, è un modello che non riesce a sostituirsi a quello tradizionale perché la qualità del lavoro è nettamente inferiore; la digitalizzazione permette a molte aziende di abbattere i costi della manodopera in cambio di impieghi extra-flessibili, ma poco garantiti. Il posto fisso sembrava non andar più di moda e il desiderio di una maggiore flessibilità e indipendenza si è tradotto in minori tutele e paghe inferiori. In realtà i lavoretti “per arrotondare” ci sono sempre stati e non hanno mai creato grande preoccupazione perché servivano per integrare lo stipendio o, per i più giovani, per mettersi qualche soldo da parte durante gli studi; il problema è la proliferazione attuale di questi impieghi part-time che accompagna la trasformazione digitale della nostra società, la cosiddetta quarta rivoluzione industriale. La dequalificazione del lavoro non riguarda solo il tipo di contratto, ma anche le figure professionali richieste: cresce l’offerta per categorie che comprendono addetti alle vendite, servizi personali, agenti immobiliari, agenti di viaggio, occupazioni elementari, mentre diminuisce lo spazio per professioni che richiedono alte qualifiche e titoli di studio, soprattutto nell’ambito tecnico-scientifico, dirigenziale e delle professioni intellettuali. Questa tendenza, nel lungo periodo, può portare ad un ulteriore calo della produttività e del reddito e la diffusione di impieghi elementari può esporre i lavoratori ad un maggior rischio di automatizzazione e la possibilità di essere rimpiazzati a minor costo.
Davide Soro