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Vescovo Guido: «Le nuove povertà sono innanzitutto spirituali»

Eccellenza, secondo lei qual è l’aspetto più rilevante che emerge dal Report 2017 della Caritas diocesana?
«Emerge prima di tutto una grande attenzione al settore della carità, nel senso che è un tema che coinvolge molte persone. Basti pensare agli oltre 20 mila pasti offerti alla mensa, alle 10 tonnellate di cibo raccolto, ai seimila pernottamenti all’ostello maschile, ai quattromila pernottamenti all’ostello femminile, alla tonnellata e mezza di ortaggi coltivati e distribuiti attraverso i 78 orti sociali coltivati e concessi in uso. Quindi è una realtà viva, effervescente, che coinvolge molte persone e trova anche corrispondenza e generosità all’interno del nostro tessuto sociale da parte di persone che si rendono conto che ci sono altri fratelli che vivono gravi difficoltà in questo tempo di crisi e che vanno aiutati».

Dal suo punto di vista, quali sono le nuove povertà, e come si combattono?
«Dal mio punto di vista le nuove povertà sono innanzitutto spirituali: la difficoltà di trovare un senso unificante alla propria vita, la fatica a combattere l’individualismo imperante nella società. Esse portano diverse persone a non riuscire a dare un orientamento alla propria esistenza e a impoverirsi umanamente e anche economicamente. In diversi casi l’impoverimento interiore è seguito anche da quello economico, perché quando viene meno una ragione per cui lottare è più facile desistere cadendo in un baratro di tristezza e insoddisfazione che ha conseguenze anche sulla situazione economica nella società».

Oltre all’apporto “materiale”, quanto è importante un aiuto spirituale?
«È fondamentale perché la ricostruzione di una persona deve mettere insieme sia l’aspetto spirituale che materiale. La mia esperienza coi poveri nel centro storico di Genova mi ha fatto capire che queste persone che vivono difficoltà talvolta estreme hanno bisogno che alla sollecitudine per le loro necessità corporee sia accompagnata una sollecitudine interiore in termini di fraternità, amicizia e di “riabilitazione” interiore e sociale. La persona senza fissa dimora si sente solitamente parte di un popolo invisibile e insignificante».

Quanto è difficile avere fede in Dio per chi vive in situazioni di disagio?
«Quando facevamo la mensa dei poveri cercavamo di concludere con qualche canto insieme, accompagnati dalla chitarra. Questa era per i poveri una attività sociale notevole perché faticavano a cantare in coro con gli altri, dal momento che vivevano una vita “fuori dal coro”. Tuttavia non dovevo mai far mancare il canto “Io vagabondo”, che loro avvertivano un po’ come un personale inno e che va a terminare con queste parole: “Io, vagabondo che son io, vagabondo che non sono altro, soldi in tasca non ne ho ma lassù mi è rimasto Dio”. Non dimenticherò mai la passione con cui queste persone senza fissa dimora cantavano queste parole, talvolta indicando con il dito il cielo. A mio avviso le persone che non hanno nulla hanno un rapporto speciale con Dio, e probabilmente si trovano a conoscerlo meglio di noi. D’altronde Gesù stesso quando ha dato agli apostoli le istruzioni prima di mandarli in missione a evangelizzare (cioè a far conoscere Dio) ha chiesto di avere un “equipaggiamento” di povertà assoluta, cosa che mi fa molto riflettere e che mi pare vada contro la nostra mentalità corrente, efficientista e organizzativa».

Come e perché un cristiano deve fare la carità?
«Un cristiano dovrebbe “fare la carità” come espressione di un profondo atto di carità, non in base solamente a una considerazione economica e sulla dignità di vita della persona che ha di fronte. Si tratta di un amore gratuito, radicale, che cerca il vero bene della persona. Che talvolta non è una semplice elemosina monetaria».

A cura di Carlotta Testa

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