Commento al Vangelo di Domenica 23 settembre 2018
XXV domenica del Tempo Ordinario
Nella liturgia della 25a domenica ricorre per due volte il riferimento alla passione di Gesù: come anticipazione nel libro della Sapienza, che riferisce in modo impressionante l’accanimento degli empi contro il giusto; e poi in Marco, con Gesù che annuncia esplicitamente la sua passione, morte e risurrezione.
Leggiamo che lungo la strada Gesù parla con gli apostoli, come un amico che apre il suo cuore agli amici più intimi, di fronte alle scelte grandi della vita. È la seconda volta che egli accenna alla propria missione. La prima volta, nel vangelo che abbiamo ascoltato domenica scorsa, Pietro aveva addirittura cercato di dissuadere Gesù dal suo cammino e il Signore aveva spiegato loro la prospettiva della vita sua e di quella dei suoi discepoli: «Il Figlio dell’uomo dovrà molto soffrire, essere rifiutato ed ucciso e dopo tre giorni risorgere… Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Tuttavia ancora una volta nessuno dei discepoli comprende.
L’annuncio di Gesù è chiaro, si tratta della sua passione, della sua morte e della sua risurrezione: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
I discepoli però hanno altre prospettive, pensano ad altro; per questo le sue parole non entrano nel loro cuore. Per loro, ancora una volta, il Messia deve essere un capo vittorioso, deve trionfare sui nemici e imporsi con la forza; per questo non può essere accettabile che venga consegnato nelle mani dei nemici ed ucciso.
È strabiliante notare – ma la natura umana non ci sorprende – come di fronte a questo annuncio drammatico i discepoli si mettano a discutere tra loro su chi sia più grande.
Gesù ha annunciato la sua umiliazione, quella di essere consegnato nelle mani degli uomini come un colpevole e l’umiliazione ancora più grande di morire sulla croce, il supplizio riservato ai peggiori delinquenti, ma i discepoli aspirano alla grandezza, discutono su chi di loro debba avere il primo posto e gli onori più grandi!
Che incoerenza: essi sono lì a seguire un maestro che non cerca posti d’onore, ma che lava i piedi ai suoi discepoli e vuole servire fino a dare la vita, eppure aspirano alla grandezza.
Agli esseri umani capita spesso di vivere nell’incoerenza e di camminare secondo criteri soltanto terreni di ambizione, di ricerca di grandezza e di onore.
Gesù allora non si stanca di ripetere a tutti discepoli, di allora e di oggi: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Questo è il principio evangelico: la grandezza consiste nel servire.
La vera grandezza
consiste nel servire
Ma noi spontaneamente non ragioniamo così. La nostra prospettiva ci porta a pensare che chi serve stia in basso, e non sia è di certo il primo ma l’ultimo, mentre chi è servito si trovi al posto più alto nella società, riverito e considerato più importante.
Gesù mostra invece che la vera grandezza consiste nel servire: chi non serve non è grande, non potrà mai essere il primo. Per essere i primi, invece, bisogna mettersi all’ultimo posto e servire gli altri.
È esigente questo insegnamento di Gesù ma, tanto più al giorno d’oggi, necessario e bello. E per spiegare ancora meglio questa prospettiva, Gesù prende un bambino, lo pone nel mezzo e abbracciandolo dice: «Chi accoglie uno solo di questi bambini del mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato». Così il Signore fa comprendere che il servizio e l’accoglienza sono la prospettiva più alta della vita.
A cura di don Stefano Tessaglia
Nei piccoli, negli indifesi, nei poveri e nei malati, in coloro che la società rifiuta e allontana, è presente Gesù, anzi il Padre stesso.