Intervista esclusiva a Carlo Santucci
La storia (e la fede) del medico che questa estate ha salvato una vita
Sono le 17.15 di martedì 27 agosto, estate 2019. Carlo Santucci, medico (precario) romano in vacanza a Cortina, 33 anni (ad agosto; da poco ne ha compiuti 34), è alla stazione di Lienz, in Austria. Non sa ancora se fare i 40 chilometri che lo separano da Dobbiaco in bicicletta (ne aveva già fatti altrettanti, al mattino, pedalando), oppure se caricare il mezzo sul treno, l’Obb delle Dolomiti, e riposarsi un po’. Ci pensa un momento, e poi opta per il rientro su rotaia. Più comodo, senza imprevisti. Sale al volo sull’ultimo vagone, mentre le porte si chiudono. Non sa ancora che quella scelta, così casuale, lo porterà a vivere un pomeriggio diverso dal solito. Sono le 17.30 e sul treno, strapieno di gente, qualcuno si mette a gridare: «Un medico? C’è un medico?». Una persona in arresto cardiaco, nel primo vagone. Carlo comincia a correre, i passeggeri si scansano per farlo passare. Davanti a lui, accasciata, una donna di 40 anni. La figlia, di 6, è in lacrime; il marito, attonito, è paralizzato dal dolore. Carlo inizia a fare un massaggio cardiaco. Riesce a concentrarsi, va avanti per 40 minuti, non si ferma fino al momento in cui la signora ricomincia a respirare. «Senza di te sarebbe morta» gli dicono i colleghi dell’elisoccorso, atterrato a pochi metri dal treno. E invece è viva: grazie a Carlo e, ipotizzo, a Qualcuno che ha fatto salire quel medico romano, quel giorno lì, proprio su quel treno. All’ultimo momento, poi. Per verificare l’ipotesi, ho cercato il dottor Carlo Santucci. E l’ho trovato. «Diamoci subito del tu, dai» esordisce lui. Volentieri. Partiamo, allora.
Carlo, dicci chi sei.
«Ho studiato medicina, mia grande passione insieme allo sport, a Roma, alla Sapienza. Dopo la laurea sono andato a lavorare all’estero, in Belgio. Poi, rientrato in Italia, mi sono dovuto confrontare con le difficoltà che la mia generazione di medici sta vivendo in questo momento. Siamo troppi rispetto ai posti disponibili, purtroppo».
Dove lavori, adesso?
«Lavoro alla clinica oculistica “San Domenico”, a Roma. In passato ho anche tenuto corsi di primo soccorso, e se questa vicenda può aprire una luce sul primo soccorso, allora ben venga! Tutti dovremmo fare un corso di questo tipo, per guadagnare tempo in attesa di un intervento specializzato. Ricordiamoci che i primi 30 minuti sono fondamentali: lì si gioca la vita e la morte dell’altra persona. Tra l’altro, per essere un soccorritore non bisogna essere medico».
È vero che ti hanno offerto un posto di lavoro a Belluno?
«I giornali hanno scritto che avrei già ricevuto delle proposte di lavoro dalla Asl bellunese, ma non è così. Mi hanno invece suggerito di partecipare ai loro prossimi bandi, cosa che farò assolutamente. […]
[…] Non sono un privilegiato, né mi favoriranno. Certo, mi sto guardando intorno, questo è il momento giusto per me».
Come è cambiata la tua vita, dopo questa estate?
«Non di molto, rispetto a prima (sorride). Sono uno con i piedi per terra, ho sempre studiato e lavorato con impegno. Il clamore non mi ha agitato più di tanto, i riflettori non mi interessano. La mia priorità è che questa signora stia bene e che la bambina possa continuare ad avere la sua mamma».
Perché lo hai fatto? Solo per il giuramento di Ippocrate?
«L’ho fatto perché non potevo non farlo. Non ho mai considerato un’altra possibilità. Da tanti anni lavoro con i disabili, mi metto a disposizione. L’emergenza è una situazione che conosco abbastanza bene, fa parte della mia forma mentis, qualcosa che ho sedimentato dal punto di vista emotivo. È un altro elemento della mia formazione: essere pronto a uscire dalla mia zona di comfort per conoscere l’altro; e, in questo modo, per conoscere meglio me stesso. Lo slancio lo trovo nella mia affettività, è parte di me, ma quando devo intervenire mi trasformo e contengo l’emotività. Se ci penso, su quel treno c’era una baraonda, un caldo pazzesco, un sacco di bambini… bisognava rimanere saldi. Ho dovuto isolarmi: l’emotività non è un impeto, ma una conoscenza di sé molto profonda».
Ripensando a questa vicenda, viene proprio da interrogarsi su che cosa sia il “caso”.
«Da medico ti direi che il caso non esiste, tutto è calcolabile. Da uomo di fede, invece ti dico che sono convinto che il caso esiste, nel senso che non è un “caso”. Fino a tre minuti prima ero sicuro di andare in bicicletta; poi invece ho preso il treno, salendo sull’ultimo vagone. Sono stato proprio l’ultimo a entrare! Mi sono sentito dentro a un Disegno, anche se devo ancora rendermene conto completamente».
Tu sei un uomo di fede?
«Sì, certo, grazie all’esempio dei miei genitori. Nella mia famiglia abbiamo sempre cercato di aiutare gli altri: con l’Ordine di Malta una volta all’anno accompagno a Lourdes diversi ragazzi disabili, e questo mi aiuta a capire chi sono io davvero, dà il peso giusto alle cose. Il volontariato è la forma più sana di egoismo: pensi di fare qualcosa per gli altri, e invece lo fai per te».
Non hai paura di questa popolarità?
«In queste ultime settimane faccio prima a dirti chi non mi ha cercato… (ride). Ma la realtà è che vorrei continuare ad andare forte nella mia professione, migliorandomi come medico e cercando di aiutare le persone. Questa per me è l’unica cosa che conta».
Andrea Antonuccio