Parla il diacono Luciano Orsini
Don Franco Torti è tornato alla Casa del Padre il 26 dicembre, festa di Santo Stefano martire, all’età di 92 anni. Su Voce abbiamo recentemente pubblicato una intervista in cui don Franco ci ha raccontato la sua vita e la sua vocazione. Ora chiediamo al professor Luciano Orsini, diacono permanente e direttore dell’Ufficio Beni culturali della Diocesi, nonché grande amico di don Torti, un ricordo di questo sacerdote che ha sempre dimostrato un grande attaccamento al suo mandato e alla Chiesa. «Ringrazio innanzitutto il Vescovo, monsignor Gallese, che con sensibilità e umanità straordinarie ha consentito a don Franco di poter essere parroco fino alla fine della sua vita, così come era suo desiderio» spiega subito Orsini, prima che inizi l’intervista.
Professore, chi era don Franco?
«Don Franco è stato innanzitutto un prete, potremmo dire senza falso pudore, con la “P” maiuscola, perché ha saputo incarnare in se stesso la vocazione avuta nei primi anni della sua esistenza, e successivamente maturata nella certezza di essere un “altro Cristo”. Questo lo ha dimostrato nei suoi quasi 70 anni di sacerdozio, spesi in diversi ambiti diocesani che si possono riassumere nella sua attività di pastore, che in ultimo lo ha visto parroco in tre diverse comunità: Rivarone, Pecetto e Fiondi».
Pur limitato nei movimenti per motivi di salute, di lui colpiva la grande positività e la voglia di continuare a essere utile alla Chiesa. Era davvero così?
«Senza il minimo dubbio. Posso confermare che la sua esuberanza spirituale, perfezionata dalla sua attività pastorale, non si è mai arresa neppure di fronte a quella che per molti sarebbe stata una mutilazione del movimento, ma che per lui è risultata essere una prova che il Maestro lo ha chiamato a sostenere. Dalla sedia a rotelle, sua compagna negli ultimi 12 anni della vita, ha continuato a svolgere la sua attività, distribuita non solo nella missione sacerdotale ma anche come utilità sociale nelle diverse realtà in cui si è trovato coinvolto. Di lui mi colpì la dichiarazione rilasciata a questo giornale, quando disse che Cristo non era sceso dalla croce e che così, a sua imitazione, avrebbe fatto anche lui, confermando in questo modo la volontà di voler continuare fino alla fine. E sarebbe stato senza dubbio così se non avesse contratto il Covid che inesorabilmente lo ha portato all’incontro con il Padre».
Lei che cosa ha imparato da lui?
«Conoscevo don Franco da oltre 50 anni, e ricordo con piacere e nostalgia il momento in cui entrò come parroco a Rivarone, nella primavera del 1969. Tra le molte persone che lo festeggiavano quale novello pastore c’ero anch’io, che da Pecetto ero andato nel paese delle ciliegie per far corona al palpabile entusiasmo di quella popolazione per il nuovo parroco. In realtà, don Franco lo conoscevo già da alcuni anni, cioè da quando era a Valenza quale responsabile del collegio Enaoli, che gli consentiva nei momenti liberi dal suo impegno di prestare aiuto al prevosto di Pecetto. Erano sempre incontri sereni, impostati sulla sua capacità di coinvolgimento e mantenuti vivaci dall’esubero delle iniziative che dal suo cuore salivano alla mente. La nostra amicizia quindi data davvero a molti anni fa, e nel tempo si è sempre più concretizzata in un rapporto di vicendevole condivisione, coronata poi quando fu nominato parroco di Pecetto. Da lui ho imparato moltissimo, soprattutto perché lo consideravo, oltre che un amico, un padre spirituale, che ha sempre saputo sostenermi nelle scelte della vita. In modo particolare, ricordo quando gli confidai la mia vocazione per diventare diacono permanente della Chiesa alessandrina. È stato un uomo che ha anche saputo ascoltare e, nonostante il confronto di idee, è sempre stato all’altezza di ogni situazione».
A Pecetto come collaboravate insieme?
«Fin dal primo momento della sua nomina a parroco, anche per la pregressa conoscenza, abbiamo immediatamente impostato un programma per superare le molte difficoltà vissute nella comunità fino a quel momento. Non solo in ambito spirituale, dove don Franco ancora una volta si è dimostrato quel padre pronto all’accoglienza e con il cuore sempre aperto e attento a ogni esigenza; ma anche per l’organizzazione materiale della parrocchia, che necessitava di molteplici interventi strutturali realizzati nel tempo grazie alla Provvidenza del Signore, alla fiducia nella Madonna e all’aiuto generoso dei pecettesi».
Se ce l’avesse davanti adesso, che cosa direbbe a don Franco Torti?
«Nella consapevole certezza di saperlo nelle braccia dell’amore di Dio, e quindi di sentirlo presente, gli ripeterei quello che tante volte gli ho detto mentre era in questa vita. Cioè, il grazie di un figlio che dal padre spirituale che il Signore gli ha messo accanto ha saputo, pur nelle diverse difficoltà dell’umana esistenza, crescere nella fede e nella consapevolezza che l’unione spirituale di chi lavora per il Vangelo compie un percorso che non si limita ai soli risultati visibili, ma va ben oltre. Ringrazio Dio, che mi ha consentito di essere accanto a don Franco negli ultimi istanti della sua vita e mi ha permesso di poter pregare con lui, che ha lasciato questo mondo sussurrando con le labbra, ma certamente con la consapevolezza del cuore, quella preghiera alla quale era legatissimo: “Ave Maria”».
Andrea Antonuccio