Che cosa resta dei chilometri passati lungo il fiume?
Che segno ha lasciato nella vita dei pellegrini?
«Ho imparato a dire a me stessa che posso farcela ad arrivare alla fine». Chi parla è Anna Coti Tundo, una pellegrina del Cammino di San Marco 2024, che, intervistata sempre da noi di Voce Alessandrina dopo la prima tappa aveva dichiarato, ironizzando sulle fatiche della navigazione, «speriamo di arrivarci viva, a Venezia». Il pellegrinaggio della Diocesi di Alessandria, guidato dal nostro Vescovo monsignor Guido Gallese, è iniziato lunedì 22 luglio ed è terminato domenica 4 agosto alla Basilica di Venezia, davanti alla tomba dell’apostolo Marco: sia Anna che tutti gli altri 11 partecipanti sono arrivati alla meta sani, salvi e cambiati interiormente dopo questa esperienza di navigazione lungo Tanaro e Po (14 giorni in canoa e “paddle board”, per un percorso totale di oltre 450 chilometri diviso in 13 tappe lungo 4 regioni). Abbiamo raccolto le loro impressioni dopo più di un mese dalla fine del pellegrinaggio e abbiamo cercato di capire se è effettivamente cambiato qualcosa nella loro vita di tutti i giorni.
Anna Coti Tundo ha 24 anni, è originaria di Pavia ma studia ad Alessandria e vive al Collegio Santa Chiara, mentre Marco Murgia è un medico di 39 anni nato in Sicilia e residente nella nostra città. Per entrambi, questo è stato il primo pellegrinaggio sul fiume.
Ci raccontate il momento che più vi portate nel cuore di questa esperienza?
Anna: «Sicuramente l’arrivo a San Marco è stato un momento molto toccante. Dopo aver macinato tutti quei chilometri, distrutti, siamo arrivati in Basilica e ci siamo inginocchiati davanti alla tomba di San Marco. Il viaggio è stato molto faticoso, ma il poter dire “ce l’ho fatta, sono arrivata” è stato grandioso. La strada avremmo potuto farla in 500 modi diversi senza dover fare tutta quella fatica e questo rende ancora più soddisfacente il traguardo, anche perché tra l’altro io non pensavo proprio di farcela a fare tutti quei chilometri (sorride). Mi sono rimaste impresse anche tutte le cene che abbiamo fatto con le persone che venivano ad accoglierci ad ogni tappa. Anzitutto percepivo l’impegno che ci avevano messo nella preparazione: c’era sempre tanto cibo, significa che ognuno di loro portava qualcosa di suo da condividere. Poi mi stupiva sempre come fossero contenti di ascoltare quello che avevamo da raccontare sulla tappa del giorno e la premura che avevano nei nostri confronti: spesso ci chiedevano se la sistemazione era abbastanza fresca, se la doccia andava bene, erano proprio attenti al nostro benessere».
Marco: «L’arrivo a San Marco è stato decisamente il momento più toccante. Anche io non avrei mai detto che sarei davvero arrivato fino in fondo (sorride). Ma non dimentico neanche una di tutte le albe che ho visto e che ho documentato con tante foto (molte delle quali le trovate sulle pagine social del cammino di San Marco, ndr): di primissimo mattino, dopo aver detto le lodi partivamo in canoa immergendoci in silenzio dentro questi panorami naturali spettacolari e ogni mattina pensavo: “Ma guarda che bella cosa che stiamo facendo”».
E cosa portate invece di quello che avete imparato nella vita di tutti i giorni?
Anna: «Difficile definirlo con una sola parola, ma provo con il termine “resistenza” nel senso proprio di non cedere a pochi passi dalla meta. Questo perché io a ogni tappa avevo una sorta di cedimento negli ultimi chilometri. Marco, il mio compagno di canoa, mi spronava sempre ad arrivare fino in fondo: è stato un Santo. Ho imparato la costanza di dire a me stessa che posso farcela ad arrivare alla fine: cosa che poi è effettivamente successa, perché non ho pagaiato solo un giorno, tutti gli altri sono sempre arrivata fino in fondo. L’altra parola che mi porto è fiducia. I frati mi dicono sempre “affidati” e questo cammino è stato la prova concreta che è proprio la strada giusta da percorrere. Faccio un esempio semplice: la tappa dove non ho pagaiato, sono andata a fare cambusa con un seminarista, Matteo Chiriotti. Per procurarci il pane siamo dovuti andare in un panificio che era lontano da dove dovevamo andare noi: io continuavo a dire a Matteo di chiamare questo panificio e assicurarsi che ci fosse qualcuno, perché stavano andando tutti in vacanza e c’era una grande probabilità di trovare chiuso e rimanere senza cibo. E Matteo mi ha risposto: “Non ti preoccupare, noi andiamo lì e poi vediamo cosa troviamo”. Al nostro arrivo non solo era aperto ma ci hanno riempito di pane e ci hanno regalato pure un sacco di pomodori, angurie e meloni. Questa mi è parsa la definizione concreta di “fidati e affidati”. Credo che per me sia uno sprone a lasciarmi guidare proprio nel cammino di tutti i giorni».
Marco: «Nella routine quotidiana della pagaiata di prima mattina ero costretto a guardarmi dentro: lungo il fiume, giorno dopo giorno ho fatto un esame di coscienza e sono riuscito a chiudere alcune questioni irrisolte che mi portavi dietro da tempo».
Riesci a farci un esempio, se puoi?
Marco: «Mi ero ripromesso di non essere più giù di umore, di guardare la mia esistenza con positività: dopo il Cammino devo ammettere che vivo molto meglio, ho sperimentato il senso della parola “leggerezza”: mi sono messo a fare tutto senza rimuginare, vivo la quotidianità con allegria».
E come ci sei riuscito?
Marco: «Una lettura del Vangelo di Marco in particolare mi ha colpito, dove si parla del comandamento “ama il tuo prossimo come te stesso”. Lì ho riflettuto molto e ho capito che dovevo voler bene a me stesso, una cosa che non avevo mai effettivamente fatto. Un altro esempio, molto semplice ma significativo: prima non mi proponevo mai per leggere a messa, ora lo faccio spesso e volentieri. La vita in gruppo mi ha aiutato molto, in ogni aspetto. Non vedo l’ora di rivedere tutti per una grigliata a casa mia!».