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Siamo tutti un po’ matti?

Cento anni fa nasceva Franco Basaglia, lo psichiatra che ha chiuso i manicomi

Starete probabilmente pensando: «Questi sono pazzi!». Ma come ci è venuto in mente di pubblicare un Paginone (senza titolo, se non la scritta sullo striscione nella foto), oltretutto nel periodo di Avvento, su un tema che non c’entra nulla con le lucine colorate, lo shopping dei regali, gli auguri “a te e famiglia”, la Santa Messa del 24 e il pranzo del 25? Beh, almeno lasciateci spiegare, e poi giudicherete. I motivi che ci hanno spinto a realizzare questo speciale sono sostanzialmente due. Il primo è che non volevamo perdere l’occasione di ricordare Franco Basaglia, a 100 anni esatti dalla sua nascita. Il secondo motivo (che cammin facendo ha sovrastato il primo) è che, secondo noi, di malattia mentale si discute ancora troppo poco. Prevale una sorta di “vergogna diffusa”: non parlandone mai, ci illudiamo che i malati di mente non esistano… Perché ci dà fastidio anche solo evocarli? Noi abbiamo provato a “provocarvi”, a partire dalle interviste a don Mario Cesario e Ludovica Jona. Voi fateci sapere che cosa ne pensate. Buona lettura!

Il personaggio – Chi era Franco Basaglia

Franco Basaglia è un noto psichiatra e neurologo italiano – il più influente del XX secolo – nato a Venezia nel 1924. È stato il principale motore del concreto cambiamento della psichiatria: da istituzione pensata per difendere i sani dai malati, l’ospedale psichiatrico è diventato il luogo dove persone deboli potevano essere curate e salvate.

Nel 1949, si laurea in Medicina presso l’Università di Padova e nel 1953 si specializza in malattie nervose e mentali presso la facoltà della clinica neuropsichiatrica di Padova.

Nel 1958 diviene docente di psichiatria presso l’Università di Padova. Tuttavia – dopo aver subito diverse ostilità per via delle sue idee rivoluzionarie, progressiste e in netto contrasto con il periodo – nel 1961 decide di lasciare l’insegnamento per trasferirsi a Gorizia con la famiglia, dove era stato nominato direttore dell’ospedale psichiatrico. Nella clinica psichiatrica di Gorizia, entra in contatto con la vera realtà psichiatrica dell’istituto, caratterizzata principalmente da trattamenti aberranti regolarmente inflitti ai malati, non considerati persone in difficoltà e da aiutare, bensì soggetti da controllare, reprimere, sedare e nascondere. Basaglia, ben presto, comincia a sostenere che il rapporto tra terapeuta e paziente dovesse basarsi su presupposti diversi da quelli vigenti, come ad esempio il dialogo e non l’annientamento dell’altro. Per questo inizia una battaglia per restituire a queste persone maggiore dignità e diritto alle cure.

In poco tempo, riesce a modificare i metodi di cura applicati in quel periodo. In primo luogo viene eliminata la terapia elettroconvulsivante, e quella farmacologica viene considerata solo un metodo per concedere la possibilità di riabilitarsi più velocemente.

Cerca di trasformare i manicomi in comunità terapeutiche, in cui medici, operatori e pazienti possiedono pari dignità e pari diritti: i rapporti non sono più verticali, bensì orizzontali, e viene privilegiata la collaborazione tra pari.

Dall’esperienza svolta in quel manicomio scaturisce l’idea che porta alla realizzazione di uno dei suoi più celebri libri: L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, edito nel 1967. Nel 1971, mette in opera l’idea dei laboratori artistici di pittura e teatro per i pazienti: attraverso la produzione artistica, i malati riescono a rappresentare se stessi e il rapporto con l’altro, comunicano i propri disagi interiori e le insicurezze, ritrovano la propria identità e si relazionano meglio agli altri. Nascono, dunque, comunità attraverso cui i pazienti possono svolgere lavori utili e anche socialmente condivisibili. Basaglia raggiunge lo scopo della reintegrazione sociale dei malati e fa notare l’inconsistenza di un processo volto alla discriminazione e disumanizzazione dell’essere umano.

Nel 1973 fonda un movimento chiamato Psichiatria Democratica, che prende spunto dalla corrente di pensiero dell’antipsichiatria. Basaglia continua a sostenere la sua battaglia contro il sistema psichiatrico del tempo finché nel 1977 ottiene la chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste. Grazie alla sua opera, finalmente, il 13 maggio 1978, due anni prima della sua scomparsa, viene ratificata la legge 180, nota appunto come “legge Basaglia”, sulla riforma psichiatrica e che porta alla chiusura dei manicomi. Si ridefinisce l’intera concezione di malattia e cura psichiatrica, rendendo la psichiatria terapeutica e riabilitativa. Tale legge, però, diviene operativa solo a metà degli anni Novanta. Negli anni successivi vengono istituiti, negli ospedali, dei reparti di Psichiatria, delle case d’aiuto e supporto alle famiglie, centri diurni e ambulatori gestiti da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali: personale formato e abilitato alle cure e al trattamento dei pazienti psichiatrici.

Franco Basaglia muore a Venezia nel 1980, all’età di 56 anni, a causa di una neoplasia al cervello. Dopo la sua scomparsa è stato sepolto nel cimitero di San Michele, sull’isola omonima della laguna di Venezia.

 

LA FABBRICA DEI SOGNI di Roma Un mosaico per papa Francesco con l’immagine di Basaglia

Il 9 ottobre, a margine dell’Udienza generale in Vaticano, alcuni utenti che beneficiano di un percorso riabilitativo e di reinserimento sociale hanno regalato a papa Francesco un mosaico realizzato nell’arco di un paio di mesi all’interno del laboratorio di Mosaico e Art Design del Centro Diurno La Fabbrica dei Sogni del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma2. Un momento per fare memoria dell’impegno di Franco Basaglia, nel centenario della nascita: lo psichiatra avrebbe desiderato incontrare il Pontefice ma alla fine, per una grave patologia che lo aveva colto, non aveva potuto realizzare il suo sogno.

Lavorare insieme, condividere, produrre libertà. “Anche se le voci mi dicevano di non fare nulla io mi sono imposto di lavorare e dare il mio contributo lo stesso e alla fine mi ha dato soddisfazione. È stato un combattimento, ma ne è valsa la pena”, così racconta Patrick, 35 anni. “A volte mi lascio prendere dallo sconforto, ma stare con gli altri mi dà un po’ di fiducia. Infatti, il mosaico è davvero bello e a essere sincero all’inizio non credevo che venisse così bello. Speriamo che le persone che lo vedono capiscano il vero significato, che è che siamo tutti uguali anche se qualcuno è più malato degli altri”. È un’immagine di Basaglia quella composta sul mosaico costituito da tantissimi tasselli in marmo posizionati dagli utenti, che hanno lavorato con i maestri d’arte grazie ai quali hanno potuto imparare a lavorare insieme, a condividere pensieri ed emozioni, in un clima sereno e collaborativo. “Ogni pezzo ha rappresentato un frammento di ciascuno che si è unito per raccontare una storia di speranza e libertà, non solo l’immagine di Basaglia”, spiega Massimo Cozza, direttore del Dipartimento di Salute Mentale Asl Roma 2.

Sul mosaico è incisa la frase “La follia è una condizione umana”, che “restituisce dignità di persona anche a chi soffre di disturbi mentali, e ha rappresentato l’insegnamento più grande di Franco Basaglia. Il mosaico – osserva il dottor Cozza – rappresenta anche un ringraziamento a Franco Basaglia per una straordinaria rivoluzione che ha consentito a chi lo ha realizzato di non poter essere più internato in un manicomio”. Idealmente, aggiunge lo psichiatra, possiamo dire che ben richiama l’enciclica di Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale “Fratelli tutti”. “La realizzazione di questo manufatto è stata per i pazienti non solo un laboratorio di arte e cura, ma anche un atto simbolico di testimonianza e di rinascita che ha dato voce alle loro storie. Lo hanno fatto con rispetto reciproco e la consapevolezza che non esistono più persone da rinchiudere, ma solo da ascoltare e accompagnare”. Del resto, la salute mentale è diventata una priorità per il Dicastero dello Sviluppo umano integrale anche alla luce delle violazioni dei diritti umani a volte commesse contro chi ha questo tipo di disturbi.

Il mosaico è un’espressione artistica che vuole porsi come il simbolo di una condizione che riguarda tutti, sottolineano i realizzatori, e non solo chi porta dentro di sé i segni della sofferenza e dell’angoscia. “La follia deve essere osservata, compresa e trattata con umanità e rispetto. È questo, in sintesi, il testamento spirituale e l’eredità intellettuale di Basaglia”, precisa il direttore Cozza.

Testo tratto da Vaticannews.va

«Ho trovato più affetto in loro che altrove» – Don Mario Cesario ci racconta la sua vita con gli “ammalati”

Caro don Mario, quando è che hai cominciato a venire a contatto con le persone un po’ più eccentriche?

«Il primo giugno del 1972. All’epoca la struttura dove alloggiavano si chiamava “Ospedale psichiatrico”, come si legge ancora oggi sulla targa “storica”».

Il primo giugno 1972 sei entrato: che situazione ti sei trovato davanti?

«C’erano circa 1.500 persone ricoverate. All’epoca non c’erano i farmaci che potessero aiutare gli ammalati a vivere una vita quasi normale: allora purtroppo c’era solo la contenzione. Quello che a me ha sempre fatto impressione era l’elettroshock: entravi nel camerone e vedevi tutte le persone posizionate nel letto con la testa verso il corridoio, pronte per il passaggio del medico, che generalmente era l’anestesista dell’ospedale civile».

Non si capiva già allora che era una pratica “esagerata”? 

«Sì, ma alle mie domande il medico rispondeva: “Questo è l’unico mezzo che abbiamo a disposizione per alleviare la sofferenza di questa gente”».

Cosa provocava l’elettroshock? 

«Dava una scossa elettrica al cervello. Generalmente dopo erano molto più tranquilli, questo sì».

Quindi tu nel 1972 entri dentro al manicomio: che servizio svolgevi? 

«Con l’altro cappellano avevamo concordato di garantire la nostra presenza continuativa di 24 ore su 24, su turni».

Chi erano le persone ricoverate? 

«L’ammalato mentale allora era chi diceva delle frasi sconnesse, senza senso. Tanti, tantissimi stavano in silenzio. Erano persone che vivevano fuori dalla realtà, in un mondo parallelo».

E chi si prendeva cura di loro?

«Il personale era composto da persone quasi tutte eccezionali e bravissime, però senza una preparazione infermieristica come la intendiamo oggi. Poi si è cominciato a fare dei corsi, si richiedeva almeno la terza media: adesso è richiesta la laurea. Posso dire, con grande gratitudine verso le suore, che le consorelle avevano una preparazione limitata per quanto concerne l’aspetto infermieristico, però erano molto più preparate umanamente e avevano un ideale. Nel reparto femminile l’atmosfera era diversa: le persone venivano pulite, trattate da amiche. Nel reparto maschile c’erano degli uomini veramente bravi ma qualcuno lo era… un po’ meno». 

Poi a un certo punto arriva questa legge.

«Arriva la legge 180, però noi, prima che arrivasse, avevamo creato la “Ludo” e la “Ergoterapia”. “Ludo”, gioco, “Ergo”, lavoro. Io ero addetto all’Ergoterapia, Don Fiorenzo era addetto alla Ludoterapia». 

Cosa avete organizzato?

«Don Fiorenzo ha riunito tutti gli ammalati che sapevano suonare uno strumento musicale e ha insegnato agli altri a recitare: ha messo in piedi un teatro eccezionale. Mentre io ero riuscito a ottenere dalla direzione un falegname e un fotografo che insegnavano a lavorare il legno, a sviluppare le fotografie. Partecipavano volentieri, però non tutti avevano la capacità di farlo. Poi è arrivata la legge 180 e anche tanti farmaci nuovi che hanno aiutato le persone. L’unica cosa che ci tengo a dire è che i manicomi non dovevano essere chiusi ma trasformati, perché tutta questa povera gente è stata spostata nelle case di riposo». 

Quindi si è spostato il problema. 

«No: si è creato un ulteriore problema, perché nella casa di riposo questa gente non ci si trovava. La legge prevedeva che non era più possibile, giustamente, tenere i manicomi strutturati come erano: ma era necessario dare un’alternativa, ossia creare delle strutture in cui queste persone potessero poi vivere una vita normale. Queste strutture non sono state mai create».  

Quindi i manicomi invece di essere trasformati in quelle strutture sono stati abbandonati. Questa alternativa di fatto è mancata, giusto? 

«È mancata totalmente. Voglio ricordare solo un episodio esemplificativo: si era liberato un alloggio al secondo piano della struttura ospedaliera di Via Venezia, e si decide di far alloggiare lì tre donne, per farle vivere da sole e in autonomia. Io avevo detto che secondo me era pericoloso e prematuro, ma non sono stato ascoltato. Purtroppo una di loro si è buttata. Non ti dico i resti che abbiamo raccolto in cortile. La settimana dopo si è buttata un’altra». 

Tu che te ne intendi: che cos’è la follia? 

«La follia è diffusa oggi più che mai: ci sono più folli adesso che là dentro. La follia è quando non si rispettano più le regole umane della società».  

Solo le regole o anche la mentalità? 

«Anche la mentalità». 

Tu oggi vai ancora dai tuoi ammalati?

«Io non vado più in psichiatria, ma al dipartimento di salute mentale dove ci sono i giovanissimi». 

E chi sono questi giovani? Perché vanno lì? 

«Sono dissociati, sradicati da quella che è la cultura di oggi, fanno fatica a inserirsi nella società. Nel dipartimento vengono aiutati con la ludoterapia e l’ergoterapia, vengono portati fuori a fare esperienze quotidiane, come potrebbe essere una visita al mercato di lunedì».

Ma non ti fa pensare che essendo tutti giovani c’è qualcosa che non va?

«La fede c’è, la carità c’è, è la speranza che non c’è più. Io mi ritengo colpevole: noi di una certa età non siamo stati capaci di aiutare i nostri ragazzi, non siamo riusciti a trasmettere a loro una speranza».

Ci siamo dentro tutti. Che altro ti piacerebbe dire di questo tema? 

«Potrei parlare per tutto il giorno, perché è stata ed è la mia vita… vorrei dire che ho trovato più affetto in quegli ambienti lì, tra gli “ammalati” che altrove: sono capaci di una semplicità, loro sentono istintivamente se gli vuoi bene».

In che modo esprimevano la fede?

«La parte femminile era un pochino più sensibile al tema, forse perché c’erano le suore. Gli uomini alla domenica venivano in massa perché c’era la Messa, e se la mia omelia era più lunga del solito loro avevano il buon gusto e il coraggio di dire: “Don Mario ci hai stufato, taglia corto!”. Non so se fossero effettivamente liberi di scegliere di venire a Messa, però la cosa positiva era che li dovevano almeno lavare e preparare per venire in chiesa». 

Potevano fare la comunione?

«Sì, certo. Ricordo un aneddoto che mi raccontava un vecchio cappellano, monsignor Cassulo: lui dava la comunione in bocca e un paziente gli ha morso la mano. Allora lui ha posato la pisside e gli ha dato un pugno in testa, così l’uomo ha aperto la bocca e lui ha estratto la mano: è un episodio che è passato alla storia».  

Come si fa a non diventare matti?

«(Sorride) E io ti chiedo: come si fa a non prendere una malattia?». 

«Adesso ci vorrebbe un altro Basaglia» – L’inchiesta di Ludovica Jona su strutture e servizi

Nel podcast “Che cosa direbbe Freud”, prodotto da LaV Comunicazione, l’ospite di una delle puntate è stata la giornalista e film-maker Ludovica Jona. Ludovica è collaboratrice del Fatto Quotidiano e i suoi lavori sono apparsi anche su La7, Rai News, Rai3. La Jona è autrice, insieme a Elisa Storace, di “Tutta colpa di Basaglia”, un’inchiesta su podcast in otto episodi che ruota attorno al tema del nostro paginone. 

Ludovica, raccontaci chi sei e perché hai voluto fare un podcast sulla salute mentale.

«Io sono una giornalista e mi occupo di inchieste, ma per “Tutta colpa di Basaglia” ho lavorato con il trasporto emotivo che mi era dato dall’essere una parente di una persona con disagio psichico: questo ha aggiunto un coinvolgimento che normalmente non ho nei confronti delle materie che approfondisco. Il fatto di avere una persona a me molto cara con queste problematiche mi ha portato a conoscere una realtà, quella delle strutture psichiatriche, cosiddette “residenziali terapeutico-riabilitative” della Regione Lazio, che in realtà dall’interno assomigliano molto di più a quelli che noi immaginiamo come manicomi piuttosto che essere luoghi dove le persone dovrebbero riprendersi. Questa esperienza mi ha portato ad approfondire il motivo per il quale, pur essendo l’Italia l’unico paese al mondo che ha chiuso i manicomi, ci siano realtà come queste, dove le persone sono “buttate” in uno stanzone, fanno tutto il giorno la spola tra il distributore di merendine e il terrazzo dove fumare, non svolgono nessun tipo di attività e sono riempite di farmaci. Queste strutture sono quasi sempre lontane da ogni centro abitato: le persone non possono uscire liberamente, perché c’è bisogno dell’autorizzazione dell’amministratore di sostegno. Stanno la maggior parte del tempo rinchiuse là dentro a fare niente e questo li porta a cronicizzare la malattia. Ho avuto l’opportunità di denunciare la situazione solo quando questa mia parente è uscita dal circuito di queste strutture perché ha avuto la possibilità economica di farlo, ma anche di approfondire la storia di Franco Basaglia e della sua incredibile capacità di fare una rivoluzione al tempo in cui non si pensava fosse davvero possibile superare i manicomi».

Nel podcast racconti che c’è una frase che ti ha colpito e ti ha spinto a scrivere questa inchiesta. Un paziente dice alla madre: “Non lo vedi che qui divento sempre più matto”? 

«Chi ha pronunciato questa frase è un uomo della mia età che ho sentito con le mie orecchie dire alla propria madre: “Mamma, ma quando esco da questa struttura? Non lo vedi che qui divento sempre più matto?!”. Dentro di me ho pensato: “Ma quanto ha ragione!”. Purtroppo in tutta Italia (eccetto il Friuli Venezia Giulia, dove i successori di Basaglia hanno portato avanti le sue idee), c’è questo sistema in cui i centri pubblici di salute mentale, che dovrebbero offrire servizi territoriali alle persone che soffrono di disagio psichico, sono sottofinanziati: non sono quindi in grado di aiutare le persone se non prescrivendo i farmaci. Dovrebbero fare assistenza domiciliare e attività formative, che sono i cambiamenti che Basaglia ha portato: sembra invece di essere tornati indietro nel tempo. Essendo i centri di salute mentale così scarsi, l’unica soluzione praticabile è rinchiudere queste persone nelle strutture private, che chiedono rette molto alte (circa 200 euro al giorno) per far cronicizzare le persone: questo è uno scandalo di cui non si parla mai. Mi sono sentita investita del compito di parlarne perché l’ho visto con i miei occhi».

Mi diresti chi è stato Franco Basaglia in una frase? 

«Basaglia è la persona che ha fatto chiudere i manicomi in Italia e che ha mostrato che dare assistenza alle persone in casa, mantenendo la loro libertà, è possibile».

Tra le sue frasi più note ricordiamo questa: “La libertà è terapeutica”. In che modo tu l’hai vista concretizzarsi?

«Sicuramente non è terapeutica la reclusione, che sia in un manicomio o in una clinica in cui chi viene recluso non fa nulla tutto il giorno, non sperimenta le sue capacità, non viene valorizzato. Certo, la libertà è un rischio: ma è forse l’unico passaggio che può permettere una reale guarigione. E questo ci riporta alla rivoluzione di Basaglia: vedere la persona prima della malattia. Questo è di per sé terapeutico: questo passaggio di liberazione all’epoca di Franco Basaglia passava attraverso lo slegare le persone dalle contenzioni, che erano proprio fisiche».

Oggi quali sono invece queste contenzioni? 

«Sono esattamente le stesse che c’erano un tempo, con l’unica differenza che non se ne parla. Prima c’erano solo i manicomi, mentre adesso si viene ricoverati in Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura), i reparti psichiatrici degli ospedali, dove si dovrebbe stare solo due settimane. Dopo, se la persona non è stabilizzata, dovrebbe andare in queste strutture di cui ho parlato, dove in teoria dovrebbe rimanere massimo due anni, ma dove potrebbe restare decenni. Nel 95% degli ospedali italiani si lega al letto con grandissima frequenza e lo si fa anche con i minorenni: questo è traumatizzante».

Che cosa cambieresti nei servizi pubblici per la salute mentale, dopo quello che hai visto?

«Io vorrei che in tutta Italia i servizi fossero organizzati come nel Friuli-Venezia Giulia, cioè dove un centro di salute mentale è aperto 24 ore anziché le 6/8 in cui sono aperti in tutte le altre regioni italiane. Non esistono strutture chiuse: tutti i pazienti vengono assistiti nelle loro case, con persone che vanno a casa a chiedere come stanno e che si rendono disponibili ad aiutare in caso di incomprensioni con parenti, familiari e datore di lavoro. Nessuno li lega al letto. Questo costa anche meno dell’assistenza psichiatrica che si ha nel Lazio, dove invece il 70% dei soldi vanno in queste strutture che ho descritto, neomanicomiali».

Quindi già oggi nella realtà esiste una modalità alternativa e conveniente?

«Sì! Come diceva il successore di Franco Basaglia, Franco Rotelli, il centro di salute mentale deve essere “come un bar di Dakar, aperto notte e giorno, che ti aiuta a trovare casa e lavoro”: e la notizia che vi do è che costa molto meno rispetto al sistema che c’è in tutte le altre regioni italiane. Il problema è che ci sono delle lobby di queste strutture, che vengono considerate necessarie. È un cane che si morde la coda: i servizi pubblici non hanno soldi, quindi è molto più semplice spedire una persona a rinchiudersi in comunità, invece di sperimentare qualcosa di nuovo. Ci vorrebbe un nuovo Basaglia per affrontare queste lobby».

Se dovesse leggerci un parente di un paziente trattato nei modi che ci hai descritto, cosa gli consiglieresti?

«Gli direi di avvicinarsi con fiducia alle associazioni. Questo è sempre il modo migliore per mettersi insieme e apprendere dalle esperienze altrui, per non sentirsi soli e per trovare delle soluzioni pratiche che possano migliorare la situazione».

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