«Ai catechisti lo dico sempre: non siete soli, ma in comunità» – intervista a don Francesco Vanotti

Ufficio catechistico diocesano

Don Francesco Vanotti incontra i catechisti della nostra Diocesi

Martedì 11 marzo, alle ore 21, alla Sala Iris del Collegio Santa Chiara (via Volturno 18) don Francesco Vanotti, direttore dell’ufficio catechistico della Diocesi di Como, verrà a incontrare i catechisti della nostra Diocesi. L’incontro è organizzato dall’ufficio catechistico diocesano che quest’anno sta vivendo il PerCorso, un cammino comunitario di tutti i catechisti delle unità pastorali che vi abbiamo raccontato dalle pagine del giornale. Abbiamo chiesto a don Francesco di raccontarci come si fa a diventare “Catechisti di speranza”, come recita il titolo del suo libro.

Don Francesco, a lei sembra che il modo “canonico” di fare catechismo, come è stato fatto finora, sia ancora sensato? I frutti sembrano dire altro…

«Innanzitutto noi continuiamo a parlare di catechismo, ma credo sia più opportuno parlare di iniziazione alla vita cristiana, come i documenti recenti della Cei ci continuano a dire. Una volta si diventava cristiani per osmosi, in famiglia. Oggi la sfida è proprio un’altra: quella di far diventare cristiane le persone. Il modo tradizionale di fare catechesi va bene per chi ha già fatto una scelta. Ma per tutti gli altri, la maggior parte, più che preoccuparci di fare catechismo dovremmo cercare di iniziarli alla vita cristiana, che è qualcosa di molto più ampio. Purtroppo noi abbiamo sempre “schiacciato” un po’ tutto sulla catechesi. Iniziare alla vita cristiana significa iniziare a una comunità, che quindi non ha più al centro il catechista singolo ma la comunità, che vive di ascolto della parola, di celebrazione dei sacramenti, della liturgia, di vita di fraternità e di testimonianza, di carità. Credo che la sfida oggi sia proprio questa».

Ma che cosa significa in concreto essere catechisti di speranza in un mondo devastato dalle guerre e profondamente segnato dal male?

«Significa essere profeti di speranza: oggi più che mai o siamo catechisti di speranza oppure non siamo catechisti, perché il nostro compito è quello di indicare sempre qualcuno. Mi viene in mente la figura del Battista, che non porta sé stesso ma indica Colui che è la vera speranza, Gesù Cristo. Come catechisti dobbiamo sempre tenere presente che noi “indichiamo”, siamo chiamati ad accompagnare le persone. Non soltanto i bambini, ma oggi innanzitutto i giovani e gli adulti. Il catechismo si occupa dei bambini, ma in realtà i documenti dagli Anni 70 ci dicono che la priorità è sugli adulti. Il significato di essere catechisti di speranza significa oggi saper guardare oltre quello che è umanamente visibile, non lasciarsi scoraggiare, vivere la virtù della pazienza da un punto di vista cristiano, pedagogico: saper vedere oltre le difficoltà del tempo presente e alzare sempre lo sguardo. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni ragazzo, ogni giovane è degno di fiducia. Sappiamo quanto l’aspetto della fiducia sia profondamente compromesso al giorno d’oggi. Essere cristiani ci chiede invece proprio questo: di vivere un atto di fiducia, di tessere legami anche di fiducia. Credo che i catechisti debbano  scommettere su queste dimensioni e annunciare la speranza attraverso la propria vita. Essere testimoni di speranza vuol dire farsi portavoce di un’esperienza di fede che è credibile, incarnata nel vissuto quotidiano».

Ci può aiutare con degli esempi concreti di catechismo “utile”, adatto ai bambini della nostra epoca?

«Innanzitutto ribadirei: “Non solo ai bambini ma ai genitori”, la scommessa sono proprio loro. Dobbiamo tornare a scommettere sugli adulti. Questo non vuol dire tralasciare i bambini, ma riversare molte delle nostre energie nell’accompagnamento dei genitori, dei giovani, degli adolescenti. E quindi creare occasioni di incontro con loro: vivere la catechesi come un’esperienza relazionale, preoccupata non solo di consegnare dei contenuti ma anche di accogliere un approccio più relazionale ed esperienziale nell’annuncio. Significa perciò ascoltare le persone, accompagnarle, accogliere le loro domande. Non dobbiamo primariamente preoccuparci che i nostri giovani, i nostri adulti rispondano in maniera dogmaticamente corretta ai nostri quesiti. Dobbiamo invece proporre loro un’esperienza di fede che attrae, che possa risultare significativa per il loro vissuto».

Se lei dovesse dire una parola di speranza a un catechista sfiduciato, che cosa gli direbbe?

«Gli direi innanzitutto di avere ben chiara la parabola dei vari terreni, perché la parola di Dio chiede di essere sempre seminata, al di là dei frutti che noi possiamo immaginare di ottenere. Il nostro compito è proprio quello di seminare anche su quei terreni nei quali pensiamo che non porti frutto, in maniera costante e con grande fiducia. Ricordatevi sempre che i frutti non siamo noi che dobbiamo vederli, ma il vero iniziatore alla fede è sempre e comunque Dio. E poi c’è anche la questione della comunità: non si è catechisti da soli, questo è importante».

Con chi si può stare, allora?

«Bisogna avere sempre come riferimento il proprio parroco, ma anche lavorare in rete, in alleanza con gli altri ministeri presenti all’interno di una comunità: i ministeri della liturgia, della carità, gli altri servizi che anche in maniera più nascosta sono chiamati a iniziare a loro modo a un’esperienza di fede. Quindi, non sentirsi da soli: è importante che i nostri catechisti, lo ripeto, non si sentano da soli, ma che si sentano sostenuti da una comunità che li supporta e li promuove».

Zelia Pastore

LEGGI QUI: Il percorso dei catechisti di Alessandria verso il Giubileo di settembre

Check Also

Al via il nuovo centro di ascolto di Caritas Alessandria

Nei locali del Cnos-Fap  Da Caritas e unità pastorale Cristo un supporto ai più deboli …

Sahifa Theme License is not validated, Go to the theme options page to validate the license, You need a single license for each domain name.