«Abbiamo vissuto dei momenti veramente intensi, profondi, pur non conoscendoci»
Eccellenza, lei è appena tornato dal pellegrinaggio giubilare diocesano a Roma. Partiamo dai numeri: 186 partecipanti, di cui 50 ragazzi della scuola “Angelo Custode”. Non sono pochi… Che cosa ci racconta?
«È stato il pellegrinaggio più bello che abbia mai fatto in vita mia con persone che non ho scelto io. Perché il più bel pellegrinaggio della mia vita? Non saprei. Però qualche ipotesi ce l’ho… (sorride)».
Siamo tutt’orecchi.
«Forse, da un certo punto di vista, credo che questa società così com’è configurata ci illuda di darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Ma, in realtà, l’essere umano ha bisogno di alcune cose che la nostra società si ostina a non dare. La nostra società, per essere aperta a tutti, nega tutto quello che attiene alla spiritualità ritenendola una cosa “personale”. E così, per questo motivo, la gente trova nella Chiesa delle risposte di cui ha fame. Ecco, questa è una motivazione, e un’altra è che, invecchiando, gusto di più le cose essenziali. E poi, siamo nel Giubileo e ci viene data una grazia in ordine a questo. Abbiamo vissuto dei momenti veramente belli, intensi, profondi, di comunità, pur non conoscendoci».
Quindi il primo elemento della comunità non è conoscersi. Allora cos’è che crea una comunità?
«Io ho imparato questo. All’inizio del mio ministero presbiterale ho predicato degli esercizi spirituali per giovani. Lì abbiamo fatto silenzio, rigoroso. I giovani non si conoscevano. Al termine degli esercizi abbiamo ripreso a conversare, e la cosa che tutti hanno detto alla condivisione finale, con grande stupore, è stata questa: “Sembra di conoscerci da una vita, eppure non ci siamo mai parlati”. Era chiaro che quello che fa la comunione non è il fare o il dirsi delle cose. Ma quando insieme vuoi Dio, ti trovi inaspettatamente attratto dagli altri».
Il pellegrinaggio dovrebbe portare dentro questo desiderio. A volte però viene proposto come una gita con qualche Messa.
«Non è stato questo il nostro caso. Dopo l’arrivo a Roma, siamo andati a San Paolo fuori le Mura e abbiamo passato la Porta Santa. Lì ho commentato l’indulgenza, il senso del Giubileo e della Chiesa, spiegando come la conversione di San Paolo è avvenuta tramite un cristiano pavido, uno che aveva paura della persecuzione e che viene comunque mandato a imporgli le mani. E l’incontro con Cristo lascia Paolo cieco. Non è l’incontro con Cristo che lo fa uscire dalla cecità che aveva prima. Dio ha voluto che lui chiedesse aiuto alla Chiesa per uscire dalla cecità. Questo ci insegna che nella Chiesa noi, che siamo persone imperfette, andiamo avanti grazie a Dio. E Lui non disdegna di servirsi di persone che sono piene di difetti. In noi Dio vede qualcosa di più».
Com’è proseguito il pellegrinaggio?
«Siamo stati nell’Abbazia delle Tre Fontane, dove secondo la tradizione San Paolo è stato decapitato. Abbiamo celebrato Messa lì, è stato bellissimo. Il giorno dopo siamo andati alla Basilica di Santa Maria Maggiore, dove ha presieduto la celebrazione il cardinal Versaldi. Abbiamo passato quindi la Porta Santa anche a San Giovanni in Laterano, e a Santa Croce in Gerusalemme abbiamo vissuto dei profondi momenti di riflessione davanti alle reliquie della Passione del Signore e alla tomba di Nennolina, la venerabile Antonietta Meo, una bambina morta a 7 anni di tumore. Una santa, davvero… Toccata dalla grazia di Dio, scriveva delle letterine a Gesù, al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo, alla Madonna, ai genitori: una testimonianza incredibile. Il giorno dopo, San Pietro, la Porta Santa e la visita alla Basilica. Dopo un giro nel centro di Roma, abbiamo celebrato Messa a San Filippo Neri, alla Chiesa Nuova. Ho vissuto così il giorno del mio compleanno, con la tomba di Pietro e la tomba di San Filippo Neri, due dei miei santi preferiti (sorride)».
Basta così?
«Il giorno dopo siamo andati alle catacombe di San Sebastiano, riflettendo sul dono dello Spirito Santo che viene dato alla Chiesa. Quel giorno le letture parlavano dell’umiltà, e ho fatto l’omelia commentando il Vangelo solo con le narrazioni dei fatti della storia di San Filippo Neri. Ho raccontato che lì, alla Chiesa Nuova, un cardinale andò a celebrare i Vespri per una festa importante e Filippo arrivò in ritardo con la talare messa al contrario e la fodera di fuori. Si sedette per terra sulla predella della sede del cardinale che stava presiedendo i Vespri. Amava passare per un pazzo, in modo che la gente non pensasse a lui come a un santo».
Bene: poi però si torna a casa, nel solito tran tran, e il pellegrinaggio rischia un po’ di “sfumare”…
«Eh, bisogna trovare una comunità, un gruppo di amici che vivano la gioia di Cristo e vogliano annunciare il Vangelo. È questa la comunità: persone che si vedono perché sono amiche, si trasmettono la gioia di Cristo e hanno voglia di comunicare al mondo il Vangelo. Se non mi metto in quest’ordine di idee, vuol dire che dovrò fare un altro pellegrinaggio (sorride)».
A proposito: è stato un pellegrinaggio giubilare senza il Papa.
«Eh sì. L’abbiamo ricordato, il nostro pensiero è andato a lui. Certo, vederlo è un’altra cosa, però era nei nostri cuori e nelle nostre preghiere, senza dubbio».
Lei dice che bisogna trovare una comunità: è più facile a dirsi che a farsi. Quella del vostro pellegrinaggio non è una comunità “di fatto”?
«Quella era una comunità, per questo è stata bella. Però poi non ci vediamo più».
Non sente la responsabilità di cogliere quello spunto che ha intravisto per stare con loro?
«Non lo so. Parto sempre dal punto di vista che la loro comunità dovrebbe essere la parrocchia. Questo è lo schema della Chiesa».
Non è “metodo della Chiesa” il pellegrinaggio che avete vissuto?
«Lo è di fatto. Ma pochi, tra quelli che vivono queste cose, le vivono in forma veramente di pellegrinaggio come abbiamo fatto noi. Ho pregato per il dono dello Spirito su questa gente, nella Basilica di San Sebastiano, all’uscita dalle Catacombe. Ed è stato un momento toccante, veramente toccante. Ho visto le persone commuoversi, e tanti hanno ringraziato per quello che abbiamo vissuto. Veramente, è stata un’esperienza bellissima».
Parliamo adesso degli Incontri di Quaresima della nostra Diocesi, che forse potremmo vivere come un pellegrinaggio, cioè come una strada verso Dio. Il primo è stato mercoledì, e domenica 30 marzo ci sarà il secondo: siamo partiti con “conosci te stesso”, poi “conosci il peccato” e, infine, “conosci il perdono”. È questa la strada dell’uomo?
«Il pellegrinaggio della vita è diverso per ogni uomo. I percorsi sono diversi, non sappiamo bene come Dio agisce: ma quello che sappiamo è che Lui fa delle cose straordinarie».
Che cosa desidera come frutto di questi Incontri di Quaresima?
«Vorrei che fossero uno spunto di riflessione, di testimonianza e di ecclesialità, tale da spingerci a qualcosa di nuovo, a essere nuovi. E, nella nostra novità, a lasciare un segno in questo mondo».